Gli improbabili vincitori dell’NBA
Alla fine ha vinto Dallas. Altro che Miami. Altro che “Big Three”. Dallas. Questi che non venivano nemmeno dati per favoriti al primo turno di playoff, contro Portland. Figurarsi a quello dopo, contro i campioni in carica dei Lakers. E poi ancora quando c’era da trovare rimedio alla gioventù, all’esuberanza e all’atletismo di Oklahoma City, la squadra NBA del futuro. Del futuro, appunto. Solo che questo è il presente. E in finale NBA, per l’Ovest, ci sono arrivati loro, i Dallas Mavericks. Quelli che il loro general manager, in questi giorni, ha definito “castoffs”, per dare l’idea di un gruppo di sopravvissuti, eroi molto improbabili, anzi scarti reciclati, avanzi caduti dalle tavole dei più ricchi. “Siamo come quelli del film ‘Castoffs’”, ha detto. Forse si riferiva a uno sconosciuto film australiano, forse al più famoso Castaway, ma non importa. Una superstar ce l’hanno, come no. Solo che è tedesca. Si chiama Dirk Nowitzki, viene da Würzburg, in Baviera. A 16 anni giocava ancora nella squadra della sua cittadina, nota giusto perché tale Wilhelm Conrad Röntgen ci scoprì i raggi X lavorando in laboratorio – e infatti loro erano i “Raggi X” di Wurzburg. Che fantasia. Oggi è un Maverick, è un campione NBA ed è il miglior giocatore delle Finali, mettendo in riga i vari LeBron James e Dwyane Wade. Il merito è di un signore con un nome tanto complicato da leggere quanto da scrivere. Holger Geschwindner, giocatore pure lui, per la Germania Ovest ai Giochi Olimpici di Berlino, nel 1972. Il suo guru, “maestro, amico e padre”, come lo ha definito in questi giorni proprio Nowitzki. Vederli l’altra notte al Liv, il club più trendy della città con la nightlife più trendy di tutta America – uno, l’allievo, alle prese con una bottiglia di champagne da guinness dei primati (tre persone per portarla al tavolo), l’altro girare smarrito in pista con un paio di jeans, una brutta camicia e calze da montagna (…) – è quanto di più improbabile si possa arrivare a immaginare. Proprio come i Mavs, i “castoffs”: improbabili campioni NBA. Perché i compagni di avventura del tedesco – sempre nelle parole del GM che la squadra l’ha assemblata – sono un playmaker “troppo vecchio” (Jason Kidd, 38 anni, mente con pochi uguali nella storia del gioco), un altro “troppo piccolo” (J.J. Barea, portoricano di un metro e ottanta che si accompagna con Miss Universo 2006), un paio di giocatori “considerati rotti e finiti” (Tyson Chandler e Peja Stojakovic) e un altro (Jason Terry) “arrivato solo come merce di scambio” nell’operazione di cessione dell’ex stella della squadra. A completare il quadro, il proprietario. Mark Cuban, uno che non si è mai fatto un problema a staccare un assegno – tanto per un giocatore da portare ai Mavs, quanto per le bottiglie di cui sopra (100 a 1.200 dollari a stappata, si dice che per il party post-titolo abbia lasciato sul tavolo quasi mezzo milione di pezzi in verde). Frequentatore abituale della lista di Forbes che include i primi 500 miliardari al mondo, i soldi non gli mancano da quando, era il 1999, ha venduto la sua società, Broadcast.com – fondata solo un anno prima con un server e una linea ISDN – al colosso Yahoo! per quasi 6 miliardi di dollari. Non il vostro manager yuppie con completo firmato e personal stylist al seguito, ma il primo tifoso della sua squadra (acquista a inizio 2000 da Ross Perot Jr. per 285 milioni di dollari) che incita con esuberanza contagioso dal suo posto a bordocampo in t-shirt, jeans e scarpe da ginnastica. Mente lucida e geniale per alcuni, rozzo arricchito per altri (barrare la prima, se volete sapere la mia), da ieri notte si fregia anche lui di un titolo che nessuno può contestargli: campione NBA. Per quanto improbabile possa apparire.