I due Deng
Io e Luol Deng abbiamo una cosa in comune.
Lui è alto 2.06, gioca nella NBA (per i Bulls che furono di Michael Jordan), viaggia a più di 17 punti e 7 rimbalzi di media e ha un contratto con Chicago per le prossime 4 stagioni che lo pagherà in media 13 milioni di dollari all’anno da qui alla scadenza, nel 2013-14.
Sembra strano, quindi, eppure abbiamo una cosa in comune.
Uno dei nostri libri preferiti è “What Is The What” (“Erano solo ragazzi in cammino”, per Mondadori), di Dave Eggers.
Solo che per lui quel libro non è solo un libro, ma è (anche) la sua storia.
E non certo perché il protagonista si chiama Deng – Valentino Achak Deng – come lui (“Deng” nel linguaggio della sua tribù dinka significa “pioggia”, mi ha spiegato Luol quando l’ho incontrato a Londra).
All’apparenza, la storia di questo giocatore di basket, giovane-ricco-e-famoso, non può assomigliare per nulla a quella del suo omonimo, cui Eggers ha dato voce.
Eppure poteva essere la stessa. Identica.
Anzi, in parte lo è stata.
Valentino ha dovuto lasciare il suo villaggio di Marial Bai assediato dai janjaweed a 14 anni. Luol ha dovuto abbandonare Khartoum quando ne aveva 4.
Valentino è fuggito per trovare rifugio nei campi profughi di Etiopia e Kenia.
Luol si è dovuto trasferire in Egitto.
Entrambi poi hanno conosciuto quella che Valentino nel suo libro chiama “la vibrante cultura occidentale”, il primo ad Atlanta, Georgia, il secondo a Croydon, mezz’ora da Londra (prima di approdare poi negli Stati Uniti per fare sul serio col basket).
Pure i nomi avvicinano i due. Perché uno che nasce in una tribù dinka mica si chiama Valentino, è ovvio. Per Achak Deng, Valentino è il nome avuto in dote da Padre Matong dopo il suo battesimo cristiano, lo stesso battesimo toccato a Luol in quel di Croydon, frequentando il liceo cattolico di St. Mary. Lì, una suora che era anche la sua insegnante domenicale scelse per lui il nome di Michael – Michael Deng, sì, che suonava meglio.
E poi, in parte, c’è stato pure il basket a unirli.
Perché Valentino, nel suo soggiorno americano, a un certo punto incontra Manute Bol [“Il nostro rispetto per Manute Bol era enorme; lui era una persona che aveva fatto tutto quello che poteva fare per portare la pace in Sudan”], il giocatore NBA recentemente scomparso. E per Luol, oltre che un eroico connazionale, Manute era pure un “collega”.
Il tutto per dire che, in quell’incontro di un anno fa a Londra, Luol Deng – oltre a confermarmi la sua passione per lo splendido libro di Eggers – mi aveva confessato di non essere mai tornato a casa, nel suo Sudan. E di volerlo presto fare.
C’è riuscito quest’estate, dopo più di vent’anni. E con lui c’erano le telecamere della BBC, che ne ha ricavato un documentario mandato in onda in questi giorni.
“Ci sono voluti 20 anni – racconta la stella dei Chicago Bulls, emozionandosi – ma non mi era mai successo di essere in un posto dove, mentre camminavo per strada, riuscivo a sentirmi a casa. Senza sentirmi, invece, un rifugiato”.