Steinbrenner, un burbero figlio di puttana
“The Boss” & “the Evil Empire”.
No, non Bruce Springsteen e la vecchia Unione Sovietica da Guerra Fredda.
Parlo di George Steinbrenner e i suoi New York Yankees.
Lui, il vero “Boss”. Loro l’autentico “Impero del Male” (almeno per Larry Lucchino, storico proprietario dei Boston Red Sox, odiati rivali di sempre).
Uno non c’è più, gli altri ovviamente restano, ma si rischia che non sia più la stessa cosa.
Se ne è andato il proprietario più famoso del baseball USA e “il più riconoscibile di tutti, nessuno sport escluso”, dice la stella degli Yankees Derek Jeter. “Un’ottima persona – per l’ex manager Lou Piniella – a patto di non dover lavorare per lui”.
Ammirato, certo, ma da molti odiato.
Come si odiano solo i grandi, quelli che – nel bene o nel male – spaccano in due l’opinione pubblica.
I motivi non mancavano, quello di sicuro.
Perché guidava la squadra più ricca di tutte (aveva comprato gli Yankees nel 1973 per 10 milioni di dollari, oggi sono quotati 1.6 miliardi).
Perché vinceva tanto (7 World Series, comprese le ultime lo scorso ottobre).
Perché era popolare come nessuno (Lee Bear recitò il suo ruolo nella celebratissima serie TV “Seinfield”).
Perché non sempre seguiva le regole (per due volte fu allontanato dalle Major League, la prima nel 1974 per donazioni illegali alla campagna presidenziale di Richard Nixon, la seconda nel 1990 per aver pagato una losca figura affinché gli procurasse informazioni su un suo giocatore).
Perché aveva un carattere pessimo, che era lui stesso il primo a riconoscere, paragonandosi al generale Patton. Come? Con queste parole: “Era un burbero figlio di puttana, che comandava con il terrore”.
Non è un caso, il riferimento bellico, perché il giovane Steinbrenner studia all’Accademia Militare di Culver, nell’Indiana degli anni ’40; così come non può esserlo quella data di nascita, il 4 luglio (1930), la stessa della sua Nazione.
“Born on the 4th of July” – per uno destinato a guidare una squadra che si chiama “Yankees” – è lo scherzo minimo che il destino può tirarti.
E li ha guidati a modo suo, questi Yankees, fin dal primo giorno. “Non mi impiccerò nelle faccende del club: continuerò a costruire le mie barche”, aveva detto presentandosi, salvo far fuori dopo soli 4 mesi chi era sulla tolda del comando e prendere personalmente il timone in mano. Sotto di lui sono passati in tanti, da Reggie Jackson (per tutti “Mr. Ottobre” perché si esaltava nel mese in cui si decideva il campionato) a Dave Winfield (che lui definì “Mr. Maggio”, per i motivi opposti), fino al gruppo attuale, con i Mariano Rivera, i Derek Jeter, gli Alex Rodriguez.
Ha visto l’All-Star Game del 2008 disputato proprio nel Bronx per dire addio al vecchio Yankee Stadium, e dalle sue ceneri ha fatto in tempo a veder nascere il nuovo, battezzandolo subito con un titolo (il 27esimo nella storia del club) nel 2009.
D’altronde “Vincere è la cosa più importante della mia vita, dopo respirare”, ripeteva spesso Steinbrenner.
Lui ha smesso di respirare. I suoi Yankees non hanno certo intenzione di smettere di vincere