Musica di gente che se n’è andata troppo presto
Il peso di un’assenza si misura dalla bellezza della sua eredità. E certe canzoni possono ucciderti. Le ascolti da anni e sai che rimarranno tali, nessuna aggiunta, fine. Perché chi le aveva in testa e le ha scritte per te (per me, no? Siamo sicuri, vero?) non c’è più.
Questo le rende migliori? Disperatamente più “vere”? Se i loro autori fossero in vita o ancora attivi, ne avrebbero alleggerita la forza? Un’adolescenza eterna tratteggiata dalle note, per quanto tragica, è imbattibile. Un esilio consapevole rasenta i confini della rabbia, se lasciato echeggiare. Il mondo musicale è pieno di perdite improvvise e meno di sparizioni volontarie, ma il vuoto immutabile che separa certi dischi dalle possibilità nulle di un seguito, dal battito muto di un “magari”, è pura mitologia dell’assenza.
Sapete bene di che cosa sto parlando, e se siete esattamente quel genere di persone, è lì che passeggiate. Vacanze in una vacanza. Benvenuti nel giardino dei rimpianti.
Nick Drake
L’archetipo assoluto. Nulla può essere più struggente di Nick Drake: nulla. Ogni canzone, riascoltata e sminuzzata con le mani aperte sulle sue copertine, sembra provenire da un dopo. Come se sapesse perfettamente che gli sarebbe toccato vivere nell’indifferenza per essere rimpianto in eterno. La fama non è che un albero da frutto, così tanto malsano, non può mai fiorire finché il suo tronco resta nella terra.
Tre album, seguiti da una serie disperata di mezzi inediti postumi, bozzetti casalinghi e sospiri privati. Un solo concerto, abbandonato perché non sostenibile. La gente rideva e non ascoltava Nick, la gente viveva senza preoccuparsi di Nick. Le canzoni che avrebbe voluto soltanto rette da voce e chitarra, e che invece risplendevano degli archi del suo compagno di studi Robert Kirby. Un mondo modellato sull’ovale di Pink Moon. L’Inghilterra dei prati perfetti, sui quali camminava solitario, dopo cene alle quali nessuno ricordava davvero di averlo avuto al fianco.
Sufjan Stevens, che è bravissimo, non è nient’altro che un riflesso di Nick Drake. Chiunque appoggi le dita su una chitarra acustica sperando che il suo sentire non ci appaia muto, è soltanto una speranza ereditata da Nick Drake. Tutte le nostre giornate accartocciate e spazzate via da quanto ci pare incomprensibile, sono un accordo di Nick Drake. Che in una notte di fine novembre del 1974 prende troppe pillole di antidepressivo e va. Non scende a metà notte in cucina ad aspettare che la madre arrivi in vestaglia a parlargli. Si addormenta con i Concerti Brandeburghesi di Bach sul piatto e il Mito di Sisifo di Camus sul comodino. Ci abbandona con le sue canzoni. Fuori ci sono la stessa contea dove nacque Shakespeare e un mondo che non ha saputo anche solo sfiorarlo o provare a offrirgli una possibilità. Per favore, datemi una seconda grazia. Per favore, datemi una seconda faccia.
Com’è stato possibile? Oggi è un santo invocato dalle stanze in cui cresciamo, al riparo di ciò che ci ha insegnato i nostri nomi. E quindi dei suoi dischi. La madre Molly staccò la puntina di quell’altare laico issato forse inconsapevolmente, e bloccò l’eterno fruscio di un disco che gira, gira e gira. Bach smise, ma Nick, suo figlio di ventisei anni, fu consegnato a noi per sempre. Sappiate che vi amo. Sappiate che me frego. Sappiate che vi vedo. Sappiate che non sono lì.
Mark Hollis
Rifiutare un successo già acquisito e poi scomparire, è la bestemmia assoluta dell’oggi. Fama, denaro e visibilità barattati per l’anonimato. Dire fine, smettere. Il progetto artistico e umano di Mark Hollis è un monumento al concetto di dignità e all’idea che la musica che si crea spieghi ogni cosa, se solo si fosse in grado di ascoltarla realmente.
Le avvisaglie e le meraviglie c’erano tutte. La sua band, i Talk Talk, nel 1984 aveva il mondo del pop in mano e “It’s My Life” si apprestava a diventare quel singolo che poi i No Doubt avrebbero fatto ri-esplodere due decadi dopo. Ma in sette anni, lentamente, Mark Hollis prese suoni e sicurezze per lasciarli svanire sotto i nostri occhi. Tre dischi maestosi (The Colour Of Spring, Spirit Of Eden e Laughing Stock) in cui tutto diventava rarefatto intorno a ritmiche improvvise ed elettricità rimodellata a pulviscolo. Pensate alla casa discografica, immaginate chi li aveva ballati nelle aspettative dei dancefloor del sabato. Lo stupore. Tutto mirava al silenzio. E quello arrivò.
Nel 1992 i Talk Talk si sciolsero e Mark Hollis annunciò di volersi dedicare alla famiglia. Nel 1998 pubblicò un album solista e ci spiegò che sostanzialmente aveva inventato musiche che non esistevano. Dove le note risplendevano quanto (o meno) degli spazi bianchi, del niente. Avvertì “Non ci sarà nessun concerto, nemmeno a casa nel salotto, questo materiale non è adatto per esser suonato dal vivo”. In copertina una foto di un pane pasquale sardo in bianco e nero. Poi disse che si sarebbe ritirato, che desiderava essere un buon padre, che aveva intenzione di dedicarsi all’ascolto. Probabilmente non ne poteva più o forse, musicalmente, sapeva di non potersi spingere oltre. Salutò e riapparve unicamente in due casi, collaborando nel 2001 a due brani di Anja Garbarek, la figlia del jazzista norvegese Jan, e componendo cinquantacinque secondi di musica strumentale per la serie televisiva Boss del 2012. Nient’altro.
La sua influenza è enorme, pari al peso dell’astenersi da tutto ciò che non sia quotidianità e dimensione privata. Non credo tornerà mai. O forse, semplicemente, a dispetto di quanto potrebbe regalarci, me lo auguro. Perché credo sia felice.
Vince Guaraldi
C’è una striscia in cui Snoopy sta battendo sulla macchina da scrivere, seduto sul tetto della sua cuccia e dice “E così finì la sua vita”. Ecco, ce l’ho fatta. Mi ci sono voluti due anni per scrivere questa biografia… È una buona cosa che abbia finito, perché ho dimenticato su chi stavo scrivendo”. Bè, di sicuro, e Snoopy lo sapeva bene, non si trattava di Vince Guaraldi.
Nato a San Francisco nel 1928, Vincent Anthony Dellaglio era il nipote di Muzzy Marcellino, uno dei più grandi “fischiatori” della musica americana. Pianista di formazione jazz, si invaghì presto della musica brasiliana e si lasciò crescere un bel paio di baffoni iconici sotto gli occhiali di corno nero. Pubblicò dei dischi insieme a Bola Sete, il chitarrista di Rio Janeiro che si era meritato quel nome (la palla numero 7, l’unica nera sul tappeto del biliardo) perché era il solo membro nero del suo gruppo jazz, ed ebbe un unico successo: “Cast Your Fate To The Wind”. Almeno fino al giorno in cui Lee Mendelson prese un taxi. Lee Mendelson era un produttore televisivo americano e aveva bisogno di una colonna sonora adeguata per lo special sui Peanuts che stava realizzando, qualcosa che fosse leggero, vagamente malinconico, ma che sapesse cogliere il ritmo di quel gruppo di filosofi alle scuole elementari. Schiacciato sulla pelle sintetica del sedile del suo taxi, sentì alla radio proprio “Cast Your Fate To The Wind”. Bam! Telefonò a Ralph J.Gleason, il critico musicale che si occupava di jazz sul San Francisco Chronicle, si fece dare il numero di Vince Guaraldi e gli commissionò le musiche per lo special natalizio dei Peanuts. Due settimane dopo il telefono di casa Mendelson squillò e Vince Guaraldi suonò Linus and Lucy dentro la cornetta.
Il 9 dicembre del 1965 A Charlie Brown Christmas fu trasmesso in televisione per la prima volta, senza le consuete risate finte, e trasmise al mondo un senso di pace, velata tristezza e infantile consapevolezza. Anche grazie alle musiche di Vince Guaraldi, forse soprattutto. “Christmas Time Is Here”, nella versione strumentale e in quella vocale, con il coro dei bambini della Chiesa Episcopale St. Paul di San Rafael, California, è la descrizione perfetta di ciò che si prova in quei giorni. Vince Guaraldi entrò ufficialmente nei Peanuts, suonò il suo piano mentre Lucy pattinava sul ghiaccio, sorrise ironico sulla ritmica mentre Linus alzava il naso verso i fiocchi di neve. Ecco, Vince Guaraldi era ironico quando quest’aggettivo non aderiva ancora alla sua sovrapposizione moderna: cinico. I Peanuts di Natale entrarono, seppure in ritardo, anche negli schermi casalinghi italiani e molti bambini degli anni Sessanta sorrisero sulle poltrone del cinema quando “Christmas Time Is Here” saltò fuori nella colonna sonora dei Tenenbaum. Si occupò delle musiche di molti altri special, nonché del film dei Peanuts, mise mano a brani dei Beatles e di Lennon, venne immortalato su alcune delle più belle copertine di jazz e mantenne un sobrio e ultra cool understatement nello sfiorare i tasti del suo pianoforte. Cantò persino.
Poi morì a soli quarantasette anni, il 6 febbraio del 1976, dopo aver chiuso il suo live al Butterfield’s Nightclub di Menlo Park, California, con una versione di Eleanor Rigby. In attesa del set successivo, la sera stessa, andò a riposarsi in camera, al Red Cottage Inn. Lo accompagnava il suo batterista, Jim Zimmerman, che lo vide accasciarsi all’istante. Al suo funerale, le musiche composte per Snoopy e Charlie Brown echeggiarono dentro la chiesa, per la gioia e il dolore di tutti i presenti.
– Vedila così Charlie Brown … questi sono i tuoi giorni tristi… i tuoi giorni di amarezza e di lotta… ma se tieni la testa alta e continui a combattere un giorno trionferai!
– Davvero la pensi così, Lucy?
Chissà. Voi ve lo ricordate cosa rispose Lucy?
Maurizio Blatto