Moebius, mutaforma
Quando Jean Giraud divenne Moebius, immaginare storie era uno strano territorio politico, e il fumetto un bizzarro laboratorio artistico.
“Non c’è nessuna ragione perché una storia sia come una casa con una porta per entrare, finestre per guardare gli alberi e un caminetto per il fumo. Si può immaginare una storia a forma di elefante, o di campo di grano o di fiammella di un fiammifero”. Così Moebius provò a spiegare con parole il suo Garage ermetico (1979), un fumetto di oltre 130 pagine dalla narrazione improvvisata – più surrealista che jazz – in un’epoca a cui il fumetto arrivava come simbolo di un’idea lineare del raccontare e dell’immaginare, e che proprio nella linea (disegnata) di Moebius trovò un simbolo per mutare la propria forma.
Con i suoi lavori Moebius ha infatti rappresentato qualcosa di più di un’eccellenza, per la storia del fumetto. Non solo perché nelle sue opere si respirava l’eredità liberatoria del Nouveau roman letterario, e non tanto perché vi si riverberavano – con divertimento – le pulsioni decostruzioniste del pensiero di Derrida o Baudrillard. Per il fumetto Moebius è stato un bizzarro artista di confine: un mutaforma, in grado di generare dalle forme note metamorfosi impreviste, e cambiare con esse se stesso. Dentro alla forma del fumetto narrativo (il Giraud di Blueberry) si trasformò – a partire dalla short story La déviation, apparsa su “Pilote” nel 1973 – in una specie di consapevole illusionista (il Moebius del Garage ermetico), creatore di un modo di fare fumetto divagante e associativo. Un fumetto che nasceva dalle forme – visive, narrative, mentali – e da esse partiva per compiere viaggi stupefacenti. Talvolta per raccontarci qualcosa, talaltra per ipnotizzare il nostro sguardo, e comunque sempre per guidarci altrove.
Esplorati da un disegno fluido quasi come un liquido, i suoi altrove hanno sprigionato tanta energia da scorrere dentro a molti altri mondi. Come quelli di Blade Runner (che tanto dovette al suo The long tomorrow). O come quelli di Andrea Pazienza, o di Hayao Miyazaki. Fellini, altro strano animale dell’immaginazione, lo definì un “Doré contemporaneo”, descrivendo il potere delle sue visioni. Quelle forme disegnate che, meglio di chiunque altro, aveva descritto lo storico dell’arte Henri Focillon – l’autore del memorabile “Elogio della mano” – nel suo “Estetica dei visionari” (1926):
“I visionari formano un ordine a parte, singolare, confuso, in cui prendono posto artisti di talento molto diverso e forse anche d’ingegno ineguale. Talvolta fanno apparire quanto di più ardito e libero caratterizza la genialità creatrice, una forza profetica tutta concentrata sui domini più misteriosi dell’umana fantasia, gli effetti infine di un’ottica speciale che altera profondamente la luce, le proporzioni e persino la densità del mondo sensibile. Li si direbbe a disagio nei limiti dello spazio e del tempo.”