Lodevoli brutti film da Oscar
Fin dai tempi del muto, il cinema hollywoodiano ha rappresentato la parte più progressista della cultura popolare statunitense. Prima che la musica riuscisse a produrre qualche sommovimento nel petto dell’America adolescente, ci sarebbero voluti gli anni ’50 di Buddy Holly ed Elvis Presley. Ma già dagli anni ’20 e ’30 Hollywood ha raccontato a un paese provinciale e contadino, timorato di dio e familista, che esisteva un altro mondo: un mondo di città dove la famiglia non contava, dove le ragazze sole cercavano fortuna nello spettacolo, dove ci si esibiva davanti al pubblico pagante nelle coreografie deluxe di Busby Berkeley.
Hollywood è così. Possiamo rappresentarla quanto vogliamo come una centrale planetaria della conservazione, ma è sempre stata tendenzialmente più cittadina, mista e liberata della media del suo pubblico. Possiamo leggere il filosofo Slavoj Žižek che ci spiega come Tutti insieme appassionatamente sia un manifesto della segregazione su base etnico-religiosa, oppure che Lo squalo è gonfio di fascismo. Resta il fatto che la libertà sessuale, culturale, etnica e religiosa sono state rappresentate per il grande pubblico statunitense da Hollywood più che da altre industrie culturali (dagli italiani, irlandesi, ebrei, comunisti, “invertiti e sgualdrine” della California più che dagli altri).
Per questo non c’è una discontinuità netta e profonda tra la storia e questi ultimi due o tre anni di #metoo e #blacklivesmatter, di grande inclusione e impegno per la diversità. C’è sicuramente una sensibile variazione quantitativa e retorica, ma chi dipinge Hollywood come l’epicentro mondiale del patriarcato e del potere nella mani dei maschi bianchi eterosessuali non dice il vero. Posto che esista un epicentro del male, e comunque si voglia intendere Hollywood, è sicuramente altrove. Peraltro gli Oscar non sono progressisti da quest’anno.
Ma rispetto al passato, quando le istanze di allargamento della rappresentanza sociale e culturale, etnica e religiosa erano mescolate a mille altre, in questa cerimonia del 2019 è sembrato che l’unica capacità di Hollywood, l’unico suo desiderio, l’unica chiave di autorappresentazione fosse l’inclusione. Notare bene che la voglia di dirsi paladini dei diritti, buoni, sensibili e impegnati è insita negli Academy Awards. Anzi, è parte della natura profonda dell’industria del cinema l’abitudine a fare soldi come si vuole e a raccontarsi come si deve: supereroi e film di guerra per il botteghino, grandi temi e premiati in lacrime una sera l’anno. E non c’è niente di male. Così come non vediamo Fabio Volo allo Strega, è naturale che non ci sia (quasi) mai Steven Seagal agli Oscar.
Ma in assenza di presentatori, in assenza di battute, in assenza di ironia di qualsiasi tipo, questi Oscar hanno rinunciato ai propri anticorpi, hanno lasciato tutto lo spazio al lato più retorico e moralista della loro natura. Sono stati degli Oscar pieni zeppi di sé, avvitati sul giusto e abbastanza noncuranti del bello (inteso come profondo, originale, controverso). Lo hanno fatto per non scontentare nessuno, per non offendere nessuno, per non mancare di rispetto a nessuno, secondo uno schema che vediamo diffondersi sempre di più in due contesti specifici apparentemente molto distanti: la cultura progressista e il marketing, alla cui convergenza perfetta sta l’Academy. Per questo faceva un po’ effetto notare che le coppie di presentatori fossero tutte calibrate secondo categorie etniche e di genere, un bianco e una nera, un gay e un’asiatica. La composizione accurata e mista di gruppi diversi rimandava al paradiso terrestre dei Testimoni di Geova, o più laicamente a un catalogo Ikea, dove il papà scandinavo porta il caffè in tavola alla mamma cinese, mentre un bambino africano e la sua sorellina dell’Iran giocano con renne di peluche sul pavimento. L’intento era chiaro e lodevole, ma l’esecuzione era talmente sistematica da risultare implicitamente ipocrita, pubblicitaria.
In questo contesto, ciascun premiato ha raccontato di una fatica, un’appartenenza, un dolore, in quel misto di orgoglio e difficoltà che nel caso di Spike Lee riempie il cuore di gioia; altrove è sembrato un modo per sfuggire all’idea che chi vince abbia semplicemente vinto per sé, non nel nome dell’etnia, della religione, del genere, dell’orientamento, della lunghissima fatica fatta per arrivare al risultato. Perfino Freddie Mercury e Rami Malek, due persone baciate da un successo straordinario, sono stati rappresentati come dei reietti, degli esclusi, gente che si trascina nel fango per prendersi ciò che la storia gli deve.
Non sono stati questi solo gli Oscar della diversità necessaria, ma soprattutto della diversità dichiarata. Perché questa onda militante degli ultimi anni sembra non accorgersi che non interviene sull’Austria di Francesco Giuseppe, ma su un’Academy che negli ultimi dieci anni ha premiato come migliori registi 4 messicani, una donna, un cinese, 4 maschi bianchi (cioè due inglesi, un francese ebreo lituano e un americano). Un’Academy che negli stessi anni ha candidato in qualsiasi categoria dei film brutti col tema razziale come Precious, The Help, The Butler, Selma: lodevoli e importanti quanto vogliamo, ma sostanzialmente inguardabili. Per non parlare dei buoni film sul tema, come 12 anni schiavo, Moonlight, Get Out.
Gli ascolti della serata sono stati, dopo l’abisso toccato l’anno scorso, i secondi più bassi di sempre. Ma questo conta poco, e probabilmente ha a che fare con fenomeni più grandi legati alle abitudini del pubblico e alle nuove generazioni. Sullo sfondo si giocava anche una partita economico-culturale “sale contro Netflix”, che è stata vinta ai punti da Netflix con gli Oscar a Roma (soprattutto quello alla fotografia, dato a un film che si vede spesso su telefoni e computer).
Spike Lee se l’è presa perché Green Book ha vinto come miglior film. È un film con il tema sociale e razziale, con un cast misto, realizzato con amore da Peter Farrelly. I fratelli Farrelly hanno fatto, molto prima che questi temi fossero sulla bocca di tutti, un cinema comico zeppo di inclusività, di diversità, di handicap, di trans, di gay, di etnie e generi. Farrelly arriva all’Oscar con il suo film più retorico, ma è salito su questo carro decenni prima che certe cose fossero di moda. Soprattutto non ha mai avuto successo per via del fatto che nei suoi film ci fosse un cast così misto e diversificato, ma perché i suoi film facevano spaccare dal ridere mentre erano fatti da quei cast. Eppure per Spike Lee, anche comprensibilmente, Farrelly non è abbastanza. Visto dal suo punto di vista, Green Book è un film di bianchi che parla di neri, è un altro A spasso con Daisy: un film consolatorio, da cartolina, ambientato in un passato da osservare aggrottando la fronte, certi di non farne più parte.
Il problema è che la gara a chi è più autentico e a chi realizza l’opera più lodevole è senza limiti e senza quartiere. C’è sempre qualcuno più nero, escluso, lesbica, asiatico e trans di te, e qualcuno che può trattare certi temi con più voce in capitolo. C’è sempre una causa più urgente, una voce più vera, un’appropriazione culturale da denunciare con più sdegno. È una sfida che ha poco a che fare con il cinema: è fatta di posizionamenti, comunicazione, marketing, botteghino, attori e agenti. Ma vediamo il lato positivo. A spasso con Daisy comunque era molto più brutto di Green Book. Così come i film a tema razziale degli anni passati, primo fra tutti Precious, erano molto più retorici, ricattatori e inguardabili di quelli di quest’anno. Certo, di film di supereroi ne abbiamo visti di belli e di brutti, ma pochi brutti come Black Panther. Eppure Black Panther ha avuto un enorme successo, e il pubblico gli ha attribuito un valore identitario forte. Il cinema è anche quello. Siamo in un un periodo di film hollywoodiani a tema, insomma, brutti e lodevoli. Passerà.