Kevin Spacey l’altro giorno non ha sbagliato niente
In questi ultimi due giorni la coda del caso Weinstein, fatta di rivelazioni, scuse e resoconti, ha preso una deviazione inaspettata. Un attore ha dichiarato che, quando aveva quattordici anni e lavorava a Broadway, alla fine di una festa tenuta nella sua stanza, Kevin Spacey, allora ventiseienne, ha tentato un approccio sessuale con lui. La testimonianza di Anthony Rapp è uscita su Buzzfeed, e poco dopo è arrivata la risposta di Spacey, fino a quel momento forse la star di Hollywood più riservata in assoluto. Spacey, che ha chiesto scusa per l’accaduto di cui non ricordava i dettagli (sono passati trent’anni ed era ubriaco), ha anche dichiarato che questa storia lo ha convinto ad affrontare certi aspetti della sua vita in maniera più trasparente, e insomma ha rivelato la propria omosessualità. È un comunicato che hanno letto tutti e che molti hanno commentato. Capisco che se ne è parlato molto, ma questa storia mette in risalto alcuni punti che secondo me sono importanti. E non sono solo punti: è pieno di sfumature fondamentali.
(Di cosa è accusato Kevin Spacey)
Per prima cosa c’è il tema dell’errore. Molti dei commenti erano mascheramenti della posizione “io non avrei sbagliato”, che rispetto all’ammissione di un errore non ci porta molto lontano. Tutti possiamo commentare quello che ci pare, è il 2017, figuriamoci. Ma se qualcuno chiede scusa per uno scivolone del passato, non ha molto senso indignarsi pubblicamente, se non per fare la ruota. A volte è un moto spontaneo, sono temi delicati e che imbarazzano tutti, ma bisogna stare attenti. Jon Ronson, nel suo libro “I giustizieri della rete. La pubblica umiliazione ai tempi di Internet“, dimostra che quando ricopriamo quel ruolo, puntiamo il dito, esigiamo scuse e ci diciamo insoddisfatti, niente è mai sufficiente per farci smettere. Se qualcuno alza le mani, insomma, approfittare per sputargli in faccia è una tentazione che va tenuta a bada.
Poi c’è il fatto in sé, che tendiamo a far ricadere con una facilità che ci fa tirare un sospiro di sollievo in un calderone di “molestie sessuali”, ma che effettivamente così grave non è. Ancora una volta ci viene da dire che non si fanno certe cose (“io non avrei sbagliato”) e che simili distinzioni sono pericolose, fastidiose, insomma che schifo!, non ci voglio pensare. E invece, anche se le sopracciglia si alzano e gli angoli della bocca puntano al pavimento, le distinzioni sono fondamentali. È vero che vengono prima le vittime, è vero che ognuno ha i traumi che ha, ma è anche vero che esiste la sostanza dei fatti. Quando qualcuno commette un omicidio, ci chiediamo con puntiglio se sia stato un incidente assoluto, un incidente causato dalla scarsa previdenza, un errore manifesto, un gesto violento finito male, un piano ben congegnato. È normale e giusto che lo si faccia per qualsiasi reato e qualsiasi contesto, per quanto sia arduo e doloroso. Ed è assurdo che, mentre i tribunali hanno questa cura minuziosa, noi che osserviamo il mondo diventiamo giustizialisti e colpevolisti, ci sentiamo più a nostro agio se leviamo di torno i dubbi, quando non ci abbronziamo alla luce del nostro rigore morale. È indubbio che una persona adulta che ha un approccio di qualsiasi tipo con un adolescente si muove in un territorio spinosissimo, dove è molto facile che incappi in forme di abuso anche prima di rendersene conto. Ma è anche vero che parliamo di un atto di qualche secondo in cui la coercizione è minima, tutto scivola molto rapidamente nell’errore, nella spiacevolezza e nell’imbarazzo. I resoconti delle modalità di approccio di Weinstein che stanno emergendo in questi giorni mostrano non solo abusi, violenza e stupri, ma anche tentativi falliti molto spaventosi: porte prese a pugni, inseguimenti, minacce, fughe. È evidente che qui siamo in un altro campionato, e fare finta di niente significa ignorare i fatti. Si rischia anche di mancare di rispetto alle persone che hanno subito quel livello di violenza. Ognuno ha le proprie esperienze, ognuno merita ascolto, ma tra Anthony Rapp e Annabella Sciorra c’è un lago che non va ridotto a un rigagnolo.
Arriviamo alla questione chiave: mettere insieme il coming out, lo svelamento della propria omosessualità, e l’ammissione di una responsabilità così infamante. Il rapporto della comunità gay con questa pratica è intenso e dinamico; ha attraversato molte fasi. Ricordiamo anche, per chiarezza, visto che nel nostro paese ci sono ancora oggi persone che confondono i due termini o trovano speciosa la differenza, cos’è l’outing e cosa il coming out. Il coming out è il venire allo scoperto e dire mamma, papà, mondo, sono omosessuale. L’outing è la pratica transitiva di chi trascina allo scoperto qualcuno senza il suo permesso. Negli anni dell’esplosione dell’HIV l’outing fu una pratica della militanza gay, un gesto estremo ma dettato anche dalla circostanza: quando degli omosessuali nascosti avevano posizioni pubbliche di condanna violenta dell’omosessualità per ragioni politiche o religiose, mentre negli ospedali di mezzo mondo gli omosessuali morivano come mosche, smascherare la loro ipocrisia svelando il loro orientamento era un’arma di difesa. Dopo quella fase, la pratica dell’outing è abbastanza universalmente ritenuta un sopruso. Certo, esiste una parte della militanza LGBT che sostiene che i personaggi pubblici dovrebbero uscire allo scoperto per rendere più facile la vita di chi vive con difficoltà maggiore la loro stessa condizione. In assoluto però questa richiesta è assurda, prescinde da una libertà fondamentale che a mio parere dobbiamo tutelare sempre: se da un eterosessuale come me nessuno pretende dichiarazioni e scelte di campo, lo stesso deve valere per le persone LGBT. Le scelte sulla nostra identità pubblica sono e devono rimanere scelte, e l’orientamento sessuale non è una banconota pagabile a vista al portatore: il suo valore profondo risiede nella libertà che rappresenta e incarna. Per la comunità LGBT il coming out è un momento centrale, importante. In questi ultimi anni, soprattutto dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili, anche noi italiani abbiamo visto e sentito racconti di coming out, e sappiamo quanto siano intensi. Il fatto che Kevin Spacey abbia unito un’ammissione di colpa al coming out ha scatenato molte reazioni furiose. Su questo io ho grossi problemi e credo che ci sia stato un fraintendimento generale di fatti, valori e priorità in campo. So che molti non saranno d’accordo, ma tant’è. Straightsplaining? Amen.
La prima obiezione è che Kevin Spacey abbia fatto coming out per sviare l’attenzione dalle molestie, esibendo un narcisismo non rischiesto. Visto che l’attenzione non è stata sviata di un millimetro, e Kevin Spacey non è uno scemo alle prime esperienze, direi che possiamo derubricare questa critica come una sciocchezza. Poi c’è chi dice che non si è abbastanza “pentito”, il che configura un interesse per l’animo delle persone che lascio a Anthony Rapp e ai sacerdoti. Io sono ateo e sono un osservatore esterno: mi interessa quello che fai e dici, non quello che senti nel profondo. Invece è vero che nei paesi in cui i gay sono perseguitati, Uganda e Cecenia per citare forse i due peggiori, l’idea che i gay siano pedofili molestatori è usata come spauracchio propagandistico per motivare arresti, torture, linciaggi, omicidi. Effettivamente rafforzare questa credenza reca un danno all’immagine degli omosessuali. Va detto che esistono ebrei avidi, neonazisti tedeschi, musulmani dell’Isis e banche svizzere che riciclano denaro sporco: ci saranno sempre ed è giusto così, ognuno fa quello che vuole, è quello che è, ha la vita che ha. È la correlazione univoca, il problema, non il fatto che ci possano essere persone che incarnano uno stereotipo offensivo.
Dan Savage, autore e opinionista gay, ha pubblicato questo tweet:
È un tweet che personalmente trovo disgustoso. Si dà per scontato che il coming out di un uomo che ha relazioni omosessuali da decenni tradisca una voglia di riconoscimento in quanto gay da parte della comunità. E già questo è assurdo. Come se il mancato coming out di questi anni fosse in fondo una debolezza, una tara, un segno di mancata compiutezza dell’uomo e dell’omosessuale: come se sotto sotto tutti volessero e dovessero fare parte del giro giusto. E invece ognuno di noi è quello che vuole e fa parte dei club che preferisce. E poi c’è un senso di selezione all’ingresso che pone Dan Savage nel ruolo di usciere ai tornelli: tu sì, tu no. Tant’è che qualcuno in Italia ha sintetizzato con un bel “Non ti vogliamo”. Ma non era una scelta individuale? Gli unici gay buoni sono quelli che non sbagliano, che ci piacciono?
Owen Jones sul Guardian ha scritto un articolo intitolato “Come osi, Kevin Spacey? Hai alimentato una lurida menzogna sugli omosessuali” , dove accusa la star di avere danneggiato la comunità per i motivi di cui sopra. Nel pezzo si usa la parola child otto volte. Child significa bambino. Per quanto l’età del consenso a New York sia sopra i 14 anni, per quanto l’episodio sia spiacevole, un adolescente non è un bambino. Non lo è mai stato. Posso garantire che tutti i maschi che leggono, compreso lo stesso Owen Jones, a quell’età passavano più tempo in bagno che in qualsiasi altra stanza della casa, mentre tre o quattro anni prima non avevamo vagamente idea. Questo significa che Anthony Rapp ha esagerato? No. Significa che tra gli adolescenti e i bambini c’è una differenza enorme, così come tra chi vede il sesso dove non c’è, e chi vede uno spiraglio di consenso praticabile dove ci sono solo un no e dell’alcol. Lo sappiamo bene. Ma sembra che spianare i dettagli dia l’impressione che siamo talmente lontani da certe cose che queste minuzie diventano irrilevanti, punti coincidenti all’orizzonte. Eppure, ancora una volta, così non si va da nessuna parte, i dettagli e le sfumature sono tutto.
Nel dibattito su questi temi, soprattutto nel mondo anglosassone, si sente in lontananza l’effetto di questa estasi dell’identità che pervade il dibattito sociale anglosassone, che io trovo molto pericolosa. Chiunque parli di qualsiasi categoria o comunità di cui non fa parte viene accusato di “appropriazione culturale”, di mancanza di rispetto, di sciacallaggio. Non si contesta più un elemento in sé, ma le appartenenze di chi parla, si contesta il podio sempre prima del discorso. Uno scrittore bianco non può scrivere di neri, una etero fare un film con delle lesbiche, un wasp raccontare una storia in cui ci sia un nativo americano. È una deriva balcanica che il pensiero identitario sta assumendo soprattutto nel contesto delle università americane. Spesso molte di queste cautele non hanno a che fare con la realtà, ma lo stesso chi le reclama si incaponisce nel ribadirne sempre di più e sempre più violentemente: sembra che i gender studies di questi anni, che hanno contribuito a demolire un’idea di identità e ruoli così granitica e opprimente, abbiano partorito una deriva settaria che risale la corrente per trasformarci ancora una volta in minuscoli monoliti di pietra. Con tutta la fatica che abbiamo fatto per liberarcene. La stessa sigla LGBT, alla quale si può aggiungere un + per comprendere tutto il resto, secondo alcuni è riduttiva. Le categorie proposte sono infinite, e le sfumature talmente sottili da sfiorare il ridicolo. C’è anche chi rivendica con forza la propria natura undecided, indecisa: come se fosse impossibile non avere ancora capito o deciso come e se orientarsi, e l’unica via percorribile fosse proclamare ufficialmente di appartenere a una genia diversissima dalle altre, cioè quella degli indecisi. È l’incrocio tra una posizione politica e un disegno di Escher. In questa ottica la discrezione è malvista, ovviamente, soprattutto se viene da un personaggio pubblico che potrebbe incarnare la categoria così bene, far parte del club e sfoggiare anche la coccarda!
Lo stesso Anthony Rapp nella testimonianza dice di avere odiato a lungo il fatto che Spacey non avesse fatto coming out.
Ad alimentare la frustrazione di Rapp c’era il fatto che lui era già uscito allo scoperto come gay pubblicamente nel 1992, quando farlo costituiva un gesto sia politicamente rilevante che professionalmente rischioso per un attore. “In quel periodo volevo gridarlo ai quattro venti: ‘Questo è un cialtrone’”, ricorda Rapp.
L’intero articolo, diciamolo, è caricato a molla per trasformare lo spiacevole e l’improprio in un delitto orrendo, cosa che come dicevo mi sembra non sia. Ma soprattutto in questo caso ciò che vorremmo, ciò che sarebbe auspicabile, non è praticabile. Quando si opera qualcuno con calma, si cerca di suturare lasciando meno cicatrici possibili. Ma in chirurgia d’urgenza, quando c’è altro in gioco, se anche le suture sembrano quelle di Frankenstein va bene, pazienza. Qui era necessario che le due cose, le scuse per la violenza e l’ammissione della propria omosessualità, per quanto la cosa possa spiacerci, andassero insieme. Ho sentito dire da molti: “Doveva tenerele separate”. Certo. Potendo, sì. Ma cosa sarebbe successo? Ieri, oggi o domani TMZ, Buzzfeed e altre testate avrebbero dato dei soldi ad ex amanti o fidanzati di Spacey per fargli, riparandosi dietro alle molestie, un outing che lui non avrebbe a quel punto potuto contestare né in assoluto né nei dettagli, risultando ulteriormente il gay che non la racconta giusta, che ha qualcosa da nascondere. Non è un caso che ieri il fratello di Spacey, “sosia di Rod Stewart e autista di limousine”, abbia rilasciato un’intervista al Daily Mail in cui non fa quello, essendo quell’arma stata spuntata dalla dichiarazione del fratello, ma racconta che il padre era un nazista antisemita che lo violentava abitualmente.
Kevin Spacey può essere il più colpevole del mondo, e stanno già arrivando nuove rivelazioni a proposito. Ma l’altro giorno ha chiesto scusa, dando credito alla propria vittima, e ha difeso un pezzo di sé che finora era stato oggetto di curiosità e dicerie. Non stava cercando di entrare in una comunità né la stava attaccando. Nell’unico modo possibile in quella circostanza delicatissima, stava identificando e tenendo separati il più possibile due elementi che nelle prossime ore e nei prossimi giorni potrebbero sembrare una sola entità indistinguibile. So che sembra paradossale, ma citandoli uno accanto all’altro stava ribadendo che l’uomo gay e il molestatore sono due cose diverse, anche se nel suo caso sono due pezzi della stessa persona.
Kevin Spacey è stato accusato di aver molestato un 14enne nel 1986