Andarsene, una cosa da vecchi
Ho smesso di utilizzare i social network e mi sento meglio. Sono passati alcuni mesi e sembro – me ne accorgo ora – l’alcoolista che descrive la sua astinenza seduto in cerchio con altri come lui, ma non sono per nulla in una situazione simile. Nel frattempo è scoppiata una guerra orribile, giusto vicino a casa nostra, e mentre tutti, comprensibilmente, ne parlavano con tutti, ho scoperto il conforto segreto di non dire nulla. Cosa avrei potuto scrivere di differente da quello che leggo su Twitter ogni giorno?
A un certo punto poi ho iniziato a vergognarmi delle cose che negli ultimi due decenni avevo scritto sui social. Non le avevo mai osservate da quell’angolazione: frasi talvolta semplicemente sciocche, altre volte solo impulsive o arroganti, altre volte ancora neutre, nel senso di trascurabili, uguali a milioni di altre: raramente invece, rileggendole a distanza, rimanevano intatte e migliori di me. Ma il resto era una distesa di vetri rotti.
Quelle parole in frantumi però mi descrivevano, e lo facevano piuttosto efficacemente. Era questa la loro forza: lo scrigno involontario della mia imperfezione esposto allo sguardo di tutti. Forse la sola ragione per cui era valsa la pena pubblicarle. Contemporaneamente quelle frasi erano anche altro ed ora ne ero certo: una geografia precisa della mia trascurabilità.
Ora è scoppiata una guerra e non è che io improvvisamente non abbia pensieri al riguardo. Li ho – temo – esattamente uguali a prima (usuali e imperfetti come prima) ma quelle parole escono ogni giorno depotenziate: perché, pur esistendo, sono indisponibili a quasi tutti.
Mi sento meglio, dicevo all’inizio, per due ragioni principali. La prima è che osservo finalmente da fuori il caotico sovrapporsi dei punti di vista, le dinamiche perverse di emersione dei contenuti peggiori che gli ambienti digitali hanno così tanto enfatizzato (e che io ingenuamente pensavo di invertire). La seconda è che vedo distintamente come tutto questo, che un tempo mi sembrava il centro del mondo, sia invece uno scoglio in mezzo al mare. “La terra è una pallina blu con tempeste”, dice l’astronauta in orbita per la prima volta in una delle mie poesie preferite: è servito guadagnare una certa distanza per rendermi conto di quanto trascurabili siano quelle discussioni che fino a ieri erano il centro dei miei interessi.
I social network restano un luogo importante e vitale: un certificato di esistenza in vita di tutti noi, oltre che una stenografia molto accurata di chi siamo e dove stiamo andando. Sono, nel migliore dei casi, il luogo dell’entusiasmo e dell’ingenuità, nel peggiore, come tutti sappiamo, una fogna a cielo aperto come tante altre.
Conterà certamente anche che sto diventando vecchio e che osservo ogni nuovo entusiasmo, in rete come fuori, con la svagatezza che riserviamo a tutto quello che secondo noi non funzionerà; conterà che il rumore di fondo ha ormai superato il limite del tollerabile e la prevalenza del cretino è ormai certificata almeno quanto la mia carta d’identità.
Non vorrei però che questo sembrasse un alibi: non sono quello meno stupido della media che improvvisamente realizza la qualità della compagnia e si allontana sdegnato. Leggo ogni giorno in rete le parole di persone che ammiro e alle quali voglio bene, trovo in esse il conforto e la sintonia che rendono la mia vita più piena e interessante. Ma assento (o talvolta dissento) ormai silenziosamente, a differenza di quanto mi capitava un tempo. E non ho più voglia di discutere con nessuno.
C’è una guerra orribile là fuori, non merita la miseria dei miei commenti da divano. Se proprio mi sembrerà il caso di scrivere in rete lo farò in luoghi nei quali le idee si formano più lentamente, e sono meno sottoposte al turbinio accelerato dei social network. Sulle pagine del mio vecchio blog, o in altri posti in cui l’intervallo fra la parola scritta e il click sul tasto publish potrà essere allungato indefinitamente.
È anche questa, senza alcun dubbio, una cosa da vecchi.