La prevalenza del ma
Prima del 6 gennaio 2020, giorno in cui un articolo sul New York Times segnalava a noi occidentali alcuni casi di polmonite sospetta in una sconosciuta città cinese, l’Italia era un Paese senza didattica a distanza e, soprattutto, senza lavoro a distanza. Perdonate la generalizzazione, so bene dell’esistenza di esperimenti vari, sporadici e spesso eroici, di multinazionali con abitudini non italiane ecc., tuttavia, come avviene da sempre, le cose da noi stavano mediamente così: la tecnologia era più o meno disponibile mentre noi, quelli che l’avrebbero potuta utilizzare, eravamo più o meno indisponibili.
Il tratto culturale prevalente a giustificare simili scelte di rifiuto per l’innovazione è da sempre un complicato miscuglio di molte cose differenti:
- la guardinga apprensione verso la tecnologia stessa, che per sua stessa caratteristica tende spesso a rivoluzionare privilegi a caso;
- l’affezione pigra per i bei tempi andati e la reazione veemente ad ogni tentativo di sostituzione (anche quando i tempi andati non è che fossero poi così belli);
- l’abitudine a un paternalismo diffuso che permea fino alle radici tutta la nostra società, la sua legislazione ed i suoi rappresentanti; quell’idea secondo la quale la vigilanza della comunità debba essere preferita alla responsabilità individuale. Il cittadino come una pecorella da custodire, il ribelle come una minaccia da tenere a distanza.
Per queste ragioni, già prima della pandemia, gli studenti non utilizzavano il digitale a scuola (quello stesso digitale che sarebbe poi inevitabilmente diventato il centro obbligatorio della loro successiva vita professionale) e le aziende preferivano far pendolare i loro dipendenti da casa verso insalubri open-space per affidare loro, laggiù, le medesime mansioni digitali che il cambiamento dei tempi aveva nel frattempo reso disponibili ovunque.
Quando il capro espiatorio è comparso all’orizzonte la società italiana ha avuto un momento di sbandamento. Per un breve periodo, da marzo 2020 all’inizio dell’estate di quell’anno, sia la scuola che il lavoro sono diventati digitali per cause di forza maggiore e nessuno ha avuto nulla da eccepire. Erano i simulacri imperfetti e fallimentari di un’idea che comunque esisteva. Del resto fra il niente e la dad e fra il niente e il lavoro a distanza chi mai avrebbe potuto applicarsi in raffinati distinguo antitecnologici? Ma quando le acque si sono un po’ calmate e lo shock iniziale è stato metabolizzato, il carattere dominante di questo Paese non ha tardato a farsi vivo di nuovo. A quel punto gli argomenti non mancavano, la pandemia ne aveva offerti molti e assai ragionevoli. Li conosciamo tutti, argomenti indubitabili, di cui abbiamo sentito discutere ovunque per mesi:
- la difficoltà, tecnologica e mentale, di organizzare e partecipare a lezioni a distanza;
- gli ingorghi, le furbizie e le inefficienze dentro aziende pubbliche o private abituate a lavorare controllando i dipendenti con il cartellino;
- l’inedita fatica digitale che colpiva tutti, adolescenti, lavoratori e insegnanti con le conseguenze psicologiche del caso.
Il capro espiatorio ha reso improvvisamente molto solide una serie di critiche alla mutazione tecnologica che in Italia erano già presenti da almeno un paio di decenni ma che rimanevano sotto traccia perché non così presentabili. Per eccepire al fascino del cambiamento tecnologico erano necessarie cautele e lunghi giri di parole: chi non lo avesse fatto correva il rischio di vedersi arruolato nel gruppo di quanti non capivano la modernità, dei fautori del telegrafo e del treno a vapore, dei vecchi matusalemme. E poiché nessun politico e nessun imprenditore, nessun intellettuale e nessun uomo della strada era disposto a tanto, la declinazione usuale della propria allergia era affidata alla congiunzione “ma”.
- La posta elettronica è utilissima ma…
- Internet è un deposito formidabile di informazioni ma…
- Le relazioni sui social sono facili ed immediate ma…
Ecco che improvvisamente il capro espiatorio della pandemia aveva cancellato quel fastidioso “ma” e aveva consentito a un numero molto ampio di persone di esprimere senza freni il proprio pensiero. E il pensiero di moltissimi, fossero ministri della Repubblica o filosofi di grido, pensionati al bar o star della TV era sempre il medesimo:
siamo stanchi di tutto questo vivere a distanza, rivogliamo indietro la nostra vita di prima. Uguale e identica a prima.
È come se improvvisamente quel “ma” di prima del Covid avesse assunto la sua vera forma di elemento dominante del nostro giudizio sul mondo che cambia. Non una ragionevole e saggia invocazione alla cautela e alla moderazione, come era sembrato a noi ingenui, ma una condanna preventiva e senza appello.
Nonostante nulla sia più insensato e reazionario di un’idea del genere, questo è il pensiero dominante in questo momento in questo Paese sulla dad, sul lavoro a distanza e su molte altre parti della nostra nuova vita. Del resto perfino lei, la nostra nuova vita tecnologica, mostra non di rado i tratti del più fastidioso autoritarismo, si impone a noi nelle forme che lei stessa ritiene, senza chiederci permesso. In un numero molto elevato di casi sarebbe davvero necessario imporre un “ma”, una elaborazione ulteriore, un approfondimento di quello che ci sta accadendo prima di accettare tutto supinamente.
Questo oggi è diventato impossibile: la pandemia, che nella sua essenza drammatica di periodo di crisi era, da un certo punto di vista, il momento ideale per sintetizzare il meglio fra le nostre possibilità di innovazione sociale, ha ottenuto l’effetto opposto: ha polarizzato le opinioni, confuso le posizioni, scatenato nuove incertezze. Ha mostrato il lato brutale della tecnologia e imbellettato le miserie della nostra vita analogica riuscendo rapidamente a farcela rimpiangere. I “ma” si sono fatti giganteschi e noi, nel giro di pochi mesi, senza rendercene conto, siamo tornati indietro di vent’anni.
update: Maddalena segnala che “ma” non è un avverbio come avevo erroneamente scritto ma una “congiunzione avversativa”. Ho corretto. Grazie.