Critiche del metaverso
Immaginare il futuro
Quando Zuckerberg annuncia per i prossimi anni un nuovo progetto sociale che mescola reale e virtuale (è curioso notare come questo termine “virtuale” che abbiamo archiviato per molti anni come vetusto e fuori tempo sia ora così improvvisamente tornato in auge) decide di immaginare come sarà il futuro di qualche miliardo di persone. La storia recente delle mutazioni tecnologiche ci informa che si tratta di una scommessa complicata, anche se proiettata in un arco temporale breve. Saranno sufficienti i grandi investimenti che Facebook ha fatto in questi anni sulle tecnologie di realtà virtuale per giustificare un loro prossimo ampio utilizzo da parte di tutti? È impossibile dirlo: in genere però le scelte tecnologiche che disegnano il futuro degli ambienti sociali dipendono più dalle persone che dell’industria. Il futuro immaginato dal tecnologo è come sempre un’ipotesi, spesso è un’ipotesi sbagliata. Il futuro di tutti, da quando abbiamo iniziato ad intestarlo alla tecnologia, nasce più spesso dentro un piccolo anfratto verso il quale nessuno sta in quel momento guardando. Oggi invece la discussione sul futuro è in piena luce e fra le solite persone.
Una società di standard
Il fondatore di Facebook ha spiegato che, per immaginare un domani in equilibrio fra applicazioni digitali e vita reale, sarà necessario accordarsi su uno standard. L’idea è sacrosanta e, del resto, inevitabile: più si penserà ad un mondo ampio e inclusivo e più sarà necessario accordarsi su un linguaggio comune che le aziende fondatrici del metaverso dovranno accettare. La rete internet del resto – alla quale in molte interviste Zuckerberg si è riferito come esempio da seguire – è nata e cresciuta così: standard tecnologici e libero accesso. Qui il punto di debolezza del progetto è davvero grande: Internet è nata non per concertazione aziendale, ma nonostante i progetti egemoni delle aziende tecnologiche del tempo. L’idea di metaverso immaginata da Facebook, Epic e altri soggetti disposti oggi ad investire miliardi in questa “nuova internet” assomiglia terribilmente all’idea di internet che avevano CompuServe o America Online o anche la stessa Microsoft all’inizio degli anni 90; un’idea rapidamente fallita di fronte ad una contraddizione molto evidente: gli standard servono alle persone, non alle aziende, nascono dalla periferia e non dal centro. Un ipotetico metaverso, se mai nascerà, difficilmente potrà essere immaginato da Facebook, non dipenderà dai suoi soldi, non terrà conto dell’etica digitale che quella o un’altra azienda tecnologica sarà in grado di produrre. Gli interessi aziendali e gli standard spesso non vanno d’accordo fra loro.
La barriera tecnologica
Ci sono cose che si possono fare e altre che non si possono fare. Le idee, perfino quelle affascinanti e geniali, non sempre si trasformano in tecnologie utilizzabili. Non è strano che Zuckerberg in questi giorni abbia spesso citato il “teletrasporto” fra le caratteristiche del prossimo ambiente immersivo che stanno immaginando: uno standard magico – il teletrasporto – un riassunto della nostra maniera epica di immaginare il futuro. Così uno dei progetti più concreti del metaverso sarà quello di trasportare un avatar (una versione graficamente accurata e digitale di noi) da una riunione ad un’altra, da un concerto a una festa fra amici, da una conferenza a un negozio virtuale. Ed è impossibile a questo punto non pensare agli ambienti eterei, angelicali e a bassa risoluzione di Second Life rimpiangendone l’assurda grossolanità. Noi in ogni caso rimarremo sempre nella medesima stanza: ciò che aumenterà sarà solo la nostra possibilità di sembrare altrove con un certo grado di verosimiglianza. Quando alcuni anni fa Google interruppe bruscamente il progetto dei Google Glass lo fece, molto saggiamente, rinunciando ad una idea di dominio assoluto sulla tecnologia. Quegli occhiali non si potevano fare, non esistevano le tecnologie per farli, esattamente come oggi non esistono le tecnologie per il teletrasporto.
La barriera sociale
Il metaverso si scontra anche con una certa idea di riunione sociale dentro l’architettura digitale. Ogni tecnologia sociale ha un suo grado di malleabilità, viene interpretata diversamente in differenti angoli del mondo. Accade già oggi con i social network, ma nel momento in cui tali tecnologie aspirano a sconvolgere le prassi della vita reale (e non più soltanto quelle del nostro alter ego dietro la schermo) l’idea del tecnologo dovrà per forza essere un’idea riassuntiva. E il punto di vista del tecnologo americano sulla sfera sociale mai come oggi rappresenta una porzione piccola del mondo, inadeguata a diventare un modello per tutti. Anche in società contigue, per esempio quella europea, una certa idea del mondo dentro il metaverso così come viene raccontato, suona già ora come inadeguata. Mi ha colpito al riguardo questa frase di Zuckerberg:
So anywhere you go, you can walk into a Starbucks, you can sit down, you can be drinking your coffee and kind of wave your hands and you can have basically as many monitors as you want
Così, dopo due anni di pandemia, il pensiero tecnologico immagina di integrare reale e virtuale consentendomi di aprire un numero indefinito di schermi virtuali mentre me ne sto chiuso dentro un bar a bere caffè? È a scene come questa che i commentatori si riferiscono in questi giorni criticando il progetto e parlando di “distopia”. Se distopia significa sottolineare gli aspetti di controllo e totalitaristici della piattaforma, io non credo che Zuckerberg – pur essendo oggi forse la persona meno adatta ad occuparsene – abbia aspirazioni del genere, se invece distopia vale nel suo significato originario di luogo spiacevole e indesiderato, ecco che il pensiero sul futuro di Mark, così intimamente legato all’agiografia da nerd che lo riguarda, difficilmente potrebbe essere descritto meglio: una prospettiva ritirata e solitaria, che allontana il mondo per costruirsene uno a propria misura, in una lontana relazione con la fuga e la chiusura in se stesso di un hikikomori particolarmente benestante che improvvisamente ha pensato di estenderla a noi.
Una via di fuga, quindi?
L’idea della fuga dalla realtà, benché sanitariamente evitata nelle molte interviste rilasciate e nel keynote a Connect in cui è stato presentato il progetto Metaverse, è in ogni caso molto presente. Se non nelle parole lo è nelle immagini rese disponibili, nei rendering di oceani e montagne, di prati verdissimi e colline, negli interni di design nel quale i personaggi, molto spesso lo stesso Zuckerberg, si muovono soddisfatti: un’iconografia di avatar e ologrammi così irrimediabilmente finta (gli ottimisti la chiameranno “cyber”) che viene davvero il dubbio che un simile ambaradan tridimensionale possa risultare affascinante per qualcuno.
Se la scommessa è quella della verosimiglianza, il risultato potrebbe essere opposto a quello atteso: più il metaverso diventa credibile e perfettino e più il suo tono depressivo sembra aumentare, tanto da far rimpiangere i pixel giganteschi ed i voli inverosimili dentro i cieli di Second Life. È come se la fuga, intrapresa con decisione da un monolocale triste nella periferia di una grande città poi per qualche ragione si riveli per noi non così distensiva.
Giganteschi peni parlanti
Il desiderio di allontanare ogni tratto caricaturale e fantastico per proporre ai propri clienti un nuovo mondo verosimile, il più vicino possibile a quello reale, è evidentemente molto forte; per farlo sarà necessario glissare sulle radici cyberpunk del romanzo Snow Crash al quale Facebook ha rubato il nome della sua nuova creatura (Neal Stephenson, l’autore del libro, ha dichiarato pubblicamente in questi giorni che nessuno da Facebook si è fatto vivo con lui) nel quale il metaverso è descritto con queste semplici parole:
“Your avatar can look any way you want it to, up to the limitations of your equipment. If you’re ugly, you can make your avatar beautiful. If you’ve just gotten out of bed, your avatar can still be wearing beautiful clothes and professionally applied makeup. You can look like a gorilla or a dragon or a giant talking penis in the Metaverse. Spend five minutes walking down the Street and you will see all of these.”
Non troverete Mark Zuckerberg in forma di gorilla o drago, nel metaverso politicamente corretto di Facebook, ma versioni di Mark che tira di scherma o che fa ginnastica su una strana piattaforma sospesa di fronte ad un panorama di palme tropicali e abeti innevati, entrambi contemporaneamente presenti quasi per sovrappiù nel medesimo sfondo iperreale. Tantomeno vi capiterà di incrociare per strada un enorme pene parlante col quale scambiare quattro chiacchiere, perché la costruzione di un mondo verosimile ma economicamente sostenibile semplicemente non lo consiglia.