Contro i podcast
Molti anni fa Wired pubblicò una famosa copertina e un altrettanto famoso lungo articolo di Kevin Kelly sul futuro di Internet. Erano altri tempi, Internet era un fenomeno ancora tutto sommato piccolo e aveva ancora senso provare a domandarsi dove una simile rete di connessioni, che stava crescendo moltissimo, sarebbe andata a finire. Wired lo fece con la sicumera che le era propria, erano del resto i tempi in cui la bibbia californiana – come molti con una certa enfasi la definivano allora – non si era ancora trasformata nella rivista patinata, irrilevante e tecnofighetta che è stata per i due decenni successivi. E insomma Wired pubblicò questa copertina con un’enorme scritta PUSH e un editoriale futuristico nel quale Kelly (una delle menti più acute della cultura digitale di allora) e Gary Wolf spiegavano che il web era morto e che il futuro della rete erano le tecnologie Push. Ricopio qui la frase centrale di quel pezzo, una sorta di inscalfibile pietra tombale datata 1997:
You might not want to believe us, but a place where you can kiss your Web browser goodbye.
Ora qui non sarà così importante segnalare che la principale società che secondo Wired avrebbe rivoluzionato la fruizione dei contenuti digitali, che si chiamava PointCast, fallì sei mesi dopo, quanto ricordare che quel concetto, l’idea secondo la quale non sarebbero stati gli utenti a cercare in rete i contenuti che li interessavano ma i contenuti stessi a raggiungerli senza sforzo sul divano di casa, per molti anni ancora è rimasta un’idea ancillare: una parte tutto sommato trascurabile dell’esperienza digitale di ognuno. Gran parte di Internet nonostante le indicazioni di Wired è rimasta pull: qualcuno metteva una cosa in rete ed io dovevo andare a cercarmela, mentre una quota residuale era, come in origine e a dispetto delle tecnologie innovative che la sostenevano, push.
Ora se le newsletter – prodotti che esistono da 25 anni, da quando venivano più prosaicamente chiamate mailing list, ma oggi di gran moda in una loro versione aggiornata, monodirezionale e fascinosa – sono un classico esempio push, i podcast sono push all’ennesima potenza. Sono Kevin Kelly paracadutato sul divano di casa vostra al grido di “Visto che avevo ragione?”.
Invece Kelly non aveva ragione. Per niente.
Al di là di ogni ironia la discussione fra push e pull è molto meno accademica di quello che sembri e coinvolge il discrimine fondamentale delle nostre esperienza culturali, vale a dire il tempo. Il tempo è la pietra angolare e, a ben vedere, lo è sempre stata: la quantità di tempo che decideremo di dedicare alla nostra crescita culturale, il tempo che spenderemo per informarci, quello che dedicheremo all’intrattenimento, quello che passeremo a cazzeggiare. Il tempo che è nostro e di nessun altro e che ognuno di noi deciderà di impegnare come meglio crede. Quel tempo, come noi lo spendiamo e come lo spenderemo, è la principale ossessione del tecnologo e dei suoi raffinati algoritmi.
Credo di essere stato uno dei primi fan delle mailing list in Italia, fin dai tempi di Lisa, luogo di rete nel quale cominciai a metà degli anni novanta a seguire i temi della cultura digitale: come molti negli ultimi mesi ho sottoscritto un discreto numero di newsletter. Mi adeguo docilmente al flusso, visto che da un po’ di tempo sembra che un simile strumento sia diventato il futuro di ogni forma di comunicazione strutturata. Mi adeguo, devo dire, ma non troppo.
Uno dei grandi punti di debolezza del push è che i contenuti arriveranno a me con grande facilità ed io, con analoga facilità, tenderò a ignorarli. Molte delle newsletter a cui sono iscritto sono ottimi prodotti, gestite da persone che stimo e di cui mi interessano i punti di vista ma ugualmente mi capita molto spesso di non leggerle. Sono lì a un passo da me e non le leggo. Se trovo su un giornale online (in genere segnalato sui social network) un articolo di Carola Frediani o uno di Francesco Costa (due editorialisti che stimo molto) mi precipiterò a leggerlo. Le loro newsletter – alle quali sono iscritto – riceveranno invece, per qualche ragione, molta minore attenzione. La ragione è che io sono un tipo pull e sono anche stupidamente orgoglioso di esserlo.
I podcast, dentro una simile logica tira-spingi sono ancora peggio delle newsletter e lo sono anche in questo caso per via del tempo. Perché da sempre su Internet, almeno per me, il testo vince su audio e video. Quanto tempo mi occorre per comprendere che un editoriale molto lungo di Frediani o Costa mi interessa? Forse venti secondi. Quanto tempo dovrei investire per rendermene conto dentro un ipotetico podcast di Frediani o Costa? Molti minuti di silenziosa nullafacenza.
Il vantaggio del push, un vantaggio che ha insieme anche a molti rischi di cui oggi non ci interessa discutere, è che ci raggiunge senza sforzo e che è in buona parte liberato dal rumore di fondo. Il suo svantaggio è che si impone a noi con maggior vigore di qualsiasi altro contenuto condiviso. Ed io sono costituzionalmente allergico ad ogni spinta estranea. Aggiungo che si tratta di un vigore tutto teorico, visto che quei contenuti che sono in bell’ordine lì accanto a me io potrò poi tranquillamente continuare a ignorarli esattamente come fossero un link sul web.
Per come pare a me i podcast hanno una propria nicchia di efficacia indubitabile, anche se mi pare essere una nicchia molto poco italiana: quella cioè legata al pendolarismo, quella dello spostamento obbligato e ripetuto dal suburbia della grande metropoli al luogo di lavoro. Anche in questo il tempo è la variabile più importante. Se ogni giorno sarò costretto a spendere un’ora in treno o in auto per andare o tornare dal lavoro quello spazio potrà essere egregiamente utilizzato ascoltando uno streaming audio. Ascolto un podcast che mi interessa e guardo il panorama fuori dal finestrino. Nonostante questo spazio d’azione tutto sommato piccolo, che da solo mi pare non giustifichi grandi entusiasmi, i podcast, esattamente come le newsletter, stanno vivendo una seconda giovinezza e sono diffusamente percepiti un po’ ovunque come il formato imprescindibile per essere al passo con i tempi. Accade del resto sempre la stessa storia: è accaduto col web, poi con i blog, poi con la presenza sui social network; ora chiunque offra contenuti per un pubblico più o meno pagante, scommette su simili tecnologie push. Risultato: abbondano i podcast e abbondano le newsletter. Come sempre nella massa enorme dell’offerta disponibile ce ne saranno di bellissimi. Io mi sono adattato all’idea che non lo saprò mai. Un po’ mi dispiace, ma molto no.