Il giornalismo come atto pubblico
Il giornalismo è un atto pubblico. È comunicazione di persone verso altre persone, la costruzione di senso che si stratifica a margine di una notizia.
La tesi di questo articolo è che un anno e mezzo di pandemia abbia colpito duramente il giornalismo in Italia, lo abbia messo alle corde come mai era accaduto in passato.
Se il giornalismo è un atto pubblico suonerà curiosa l’affermazione infastidita che sento ripetere molto spesso da alcuni giornalisti su Twitter (Twitter da noi è ormai una piccola riserva indiana per giornalisti ed amanti del giornalismo, oltre che probabilmente una piccola riserva indiana di molte altre nicchie a me del tutto ignote) secondo la quale le critiche al giornalismo prescindono troppo spesso dalla conoscenza dei suoi meccanismi tecnici. Se il fastidio di una classe professionale si rivolge a chi ne ignora consuetudini e liturgie (il che molto spesso è del tutto vero ed evidente) si creerà un’immediata divergenza su cosa il giornalismo in effetti sia. Comprendere quel fastidio non è difficile, tuttavia nulla è più discutibile del punto di vista dall’interno della macchina: nessuno osserva le dinamiche del proprio lavoro in maniera più particolare di chi lo vive dal nucleo del suo ciclo produttivo. È un paradosso che vale per molte categorie professionali, in particolare per quei gruppi di persone il cui lavoro produce evidenze pubbliche: penso ai giornalisti, penso per esempio agli insegnanti, penso ai medici. Il paradosso è che – da un certo punto di vista – chi produce simili atti pubblici sarà spesso la persona meno indicata per giudicarli.
La tesi di questo articolo si basa su una constatazione che riguarda quindi le evidenze del giornalismo, il suo risultato finale, ciò che accade nel momento in cui l’informazione viene rilasciata e produce i suoi effetti. Per occuparsi di questo non sarà necessario essere un addetto ai lavori, basterà essere il destinatario di simili comunicazioni: il lettore, nel caso del giornalismo, lo studente nel caso degli insegnanti, il paziente nel caso dei medici. Ben sapendo che anche simili pareri mostreranno grandi ingenuità.
Una volta chiarito questo andiamo al punto: cosa c’entra la pandemia con l’ipotesi di un’ulteriore perdita di valore del giornalismo in Italia, con il suo inconsapevole auto-affondamento? Il fatto è che la crisi legata al coronavirus ha condensato in una sola notizia, una notizia che per un tempo incredibilmente lungo è diventata la più importante e pressoché l’unica degna di nota per i lettori, molti punti di debolezza differenti che il giornalismo italiano ha sempre avuto. Due su tutti: la paura e la scienza.
Sulla scienza, sulle convenzioni che riguardano la sua divulgazione, sulla necessità professionale di maneggiare informazioni complicate nella giusta maniera, scontavamo un deficit storico evidente. Il giornalismo scientifico – con le sue prassi e le sue buone pratiche – in Italia è da sempre relegato ai margini. Non aveva grande peso prima, per la diffusa percezione che simili questioni non interessassero troppo ai lettori e la constatazione della scarsa possibilità di un simile argomento di incrementare le relazioni degli editori con il mondo intorno, e non ne ha avuto ora, nel momento in cui avrebbe potuto mostrare tutto il suo fulgore.
Così è accaduto che chiunque, dentro le redazioni dei giornali e anche fuori, abbia improvvisamente iniziato a scrivere e a parlare di pandemia: l’assenza di una struttura professionale di riferimento ha reso la comunicazione sulla pandemia un gigantesco e continuo susseguirsi di pareri e opinioni, lasciando ai margini le ben più rilevanti questioni scientifiche. Casuali o intenzionali che fossero, nella stragrande maggioranza dei casi, quei pareri e quelle opinioni erano accomunati da un tratto riassuntivo: non erano in grado di maneggiare un tema tanto complesso per spiegarlo ai lettori.
Sebbene il lavoro peggiore al riguardo lo abbiano prodotto i cosiddetti esperti (medici, epidemiologi, virologi) rapidamente assurti, per forza di cose, a figure di riferimento nazionale, il giornalismo ha mostrato al riguardo la pochezza delle proprie risorse. È accaduto che, in un paese nel quale l’atto pubblico sulla scienza era occasionale e scarsamente frequentato, chiunque se ne sia occupato e lo abbia sostituito con il proprio punto di vista al riguardo. Detto in altre parole il ruolo cardine del giornalismo nell’emergenza sanitaria ha fallito i suoi doveri divulgativi, sostituendoli con la gestione dei sentimenti circostanti. Non avendo grandi alternative disponibili si è fatto di necessità virtù, e la virtù non è stata cosi proficua per l’interesse generale.
Sulla paura e il giornalismo sono costretto a toccare temi che i giornalisti in genere tentano in ogni maniera di evitare. Non credo esistano grandi dubbi sul fatto che il sentimento dominante dell’ultimo anno sia stato la paura. Tutti noi l’abbiamo sperimentata su noi stessi e sui nostri cari, l’abbiamo vista raccontata in TV e sui social network, l’abbiamo esorcizzata come abbiamo potuto. Solo che quel sentimento, diventato improvvisamente tanto inevitabile, era già da prima uno dei cardini del peggior giornalismo: la paura era – da almeno un decennio e ben prima della pandemia – uno degli ingredienti più utilizzati dalla macchina informativa per arginare le perdite economiche del sistema editoriale. Ed è stata la paura, in questo anno e mezzo di pandemia, il motore silenzioso dell’informazione sul coronavirus. Abbiamo osservato sui principali organi informativi del paese migliaia di casi di paura intenzionale, prodotta dalla macchina delle news applicando al virus una ricetta già nota e sperimenta: spaventare il lettore come una maniera – ormai quasi l’unica – per ottenere la sua attenzione. È inutile adesso soffermarsi su singoli esempi, produrre distinguo fra carta e digitale, fra titoli e contenuto degli articoli, fra forme di paura giornalistica generate da esigenze economiche o da altre – sempre presenti – forme di coercizione ideologica, che utilizzano la paura, inchiostrata sulle pagine di un giornale, per ottenere altri scopi.
Nell’enorme serbatoio informativo che la pandemia ha prodotto, dove hanno convissuto mille cose diverse e quindi anche tanti tentativi onesti e talvolta perle rilevanti di servizio informativo verso i lettori, i due tratti dominanti, quelli che hanno vinto su tutto, mi sono sembrati questi.
Il primo è un semplice deficit professionale: la scarsa abitudine a maneggiare la scienza nel momento in cui essa deve essere spiegata ai cittadini nella maniera più esatta e semplice possibile. Il secondo invece è il vero abisso culturale dentro il quale l’atto pubblico del giornalismo italiano è sprofondato da tempo: quello di far leva sui sentimenti peggiori dei lettori per garantire la propria sopravvivenza.
In questa maniera, passo dopo passo e quasi senza accorgersene, il giornalismo italiano ha prima iniziato a spegnere il proprio ruolo guida nella formazione di un pensiero informato e libero nei suoi lettori e poi, silenziosamente, ha cominciato a produrre disinformazione, intestandosi quindi un ruolo attivo pur se tuttora negato, nella decadenza culturale del Paese.