Restiamo, nonostante tutto
L’espressione “tribunale della rete” è diventata sempre più usuale. Come ogni generalizzazione ha le sue imperfezioni ma, a differenza di altre frasi simili (“popolo della rete”, “i commentatori del web”), non si occupa dell’impossibile: non tenta di riassumere il punto di vista di tutti dentro un unico pensiero, non generalizza così tanto da svelare semplicemente la pigrizia assoluta di chi la utilizza.
“Tribunale della rete” prova a circoscrivere a parole un abito sociale che chiunque utilizzi i media digitali ha incrociato almeno una volta: la tendenza, banalmente ricorsiva, di procedere di sentenza in sentenza, di sostituire con leggerezza un’indignazione a quella subito successiva, in un flusso dentro il quale ciascuno di noi è protagonista e vittima.
Il tribunale della rete condannerà per una vistosa mancanza, ma saprà occuparsi anche di una minima sbavatura. Invoca la pena capitale o almeno un tweet di scuse, poi analizza quel tweet, lo trova insoddisfacente e concentra la sua attenzione sulla codardia e l’ambiguità del colpevole, che non sa nemmeno chinare il capo di fronte ai propri misfatti.
Nelle rare occasioni in cui il colpevole chinerà il capo, il tribunale della rete si dichiarerà comunque insoddisfatto. Per la tendenza enfatizzata dagli ambienti digitali a portare in primo piano i piccoli particolari, svelandone la presunta importanza, ogni errore ed ogni riparazione saranno sottoposti al medesimo flusso di analisi accurata e feroce critica. Ogni volta il tribunale della rete avrà una nuova sentenza da emettere.
Chiunque abbia passato abbastanza tempo in rete e ne abbia osservato le dinamiche sa che esiste una sola tecnica efficace nei confronti del tribunale della rete: questa tecnica è il silenzio, la remissione, la mancanza di reazioni, il fingersi morto. Non si tratterà in questo caso di codardia – come il tribunale si affretterà a sottolineare – ma di cristallina intelligenza. Il vertice di una simile intelligenza sarebbe forse non solo non reagire ritirandosi in buon ordine, ma non entrare proprio nella stanza, non partecipare, non dire nulla, non mostrare i propri sentimenti. Purtroppo per molti di noi questo è un prezzo troppo alto da pagare. Restiamo da quelle parti, invidiando silenziosamente (un po’ biasimandoli per la perdita) quelli che amavamo e che hanno mollato, e alla fine se ne sono andati. Ma restiamo lì perché quello che quell’esperienza aggiunge alla nostra vita continua a sembrarci maggiore delle perturbazioni che la circondano.
Restiamo, sorridendo alle analisi meravigliate dei molti che immaginano il tribunale della rete come un parto mostruoso dei social network e non la registrazione finalmente esatta delle nostre miserie. Restiamo, perché non vogliamo dimenticare che il “popolo della rete” ma anche il suo tribunale sono molto più esattamente definiti dall’enorme massa silenziosa di chi legge e non commenta, di chi utilizza le parole altrui per farsi una opinione senza emettere un fiato. Di chi costruisce le proprie convinzioni e la propria cultura sopra quel gigantesco cumulo digitale di parole e idee senza doverle ogni volta riassumere in un giudizio espresso in pubblico. Che è poi ciò a cui aspiriamo.
L’imperfezione gigantesca dei luoghi digitali nei quali ormai da un paio di decenni socializziamo è sotto i nostri occhi: l’enorme perdita di tempo che comportano, la quota gigantesca di temi irrilevanti dai quali ci faremo amorevolmente avvolgere, la cruda esposizione di disumanità e cinismo di cui faremmo volentieri a meno e che invece ogni giorno si ripropone a noi in piena luce.
Sotto i nostri occhi però resta la grande vitalità di quegli stessi luoghi, i lampi di ironia e intelligenza che contengono, le informazioni fenomenali alle quali non saremmo mai potuti arrivare in altra maniera.
Quindi alla fine restiamo, per quello e nonostante tutto. Invocando ogni volta possibile il dio del nostro silenzio.