I vecchi, i giovani, i giornalisti e tutti noi
È strano come a volte notizie apparentemente distanti fra loro si riuniscano improvvisamente dentro un unico pensiero. Ieri si è discusso molto di un infortunio occorso a Corrado Augias che nella sua rubrica su Repubblica ha confessato ingenuamente di avere abboccato a una mail di phishing. Delle molte reazioni scatenate da quell’articolo una sola è davvero rilevante. Augias non è un semplice signore anziano di 86 anni alle prese con le complessità degli ambienti digitali: è un uomo colto e pieno di relazioni, una persona che conosce il mondo. Il problema semmai è: quale mondo? Se le pratiche truffaldine online colpiscono lui con una simile facilità – penso – tanto più interesseranno moltissimi altri anziani. E ovviamente non solo loro. Nel 2016 la casella email di Hillary Clinton fu violata da un gruppo di hacker perché il sessantasettenne capo staff di Clinton, John Podesta abboccò a una mail di phishing: le sue mail finirono su Wikileaks e condizionarono probabilmente la successiva vittoria di Donald Trump. È rilevante in tutto questo che Podesta fosse un politico di lungo corso nato nel 1949? Probabilmente sì.
Quanto alla nostra automatica sensazione di sentirci sicuri e competenti nei confronti di questo e altri rischi di Internet, sia nel caso l’anagrafe sia dalla nostra parte sia nel caso in cui stimiamo le nostre competenze digitali superiori alla media, ricordo che il mondo è un eterno divenire e che l’astuzia dei peggiori saprà probabilmente superare la nostra.
Dobbiamo concentrarsi sui temi dell’educazione digitale, e lo dobbiamo fare non per cavalcare l’onda dell’innovazione, stato della mente che ci manterrà giovani e interessanti, ma più banalmente perché non esiste alternativa: perché da tempo tutta la nostra vita si sviluppa dentro ambienti che prevedono nuovi linguaggi e nuove prassi, linguaggi e prassi che spesso non conosciamo e che molti di noi rifiutano. Proteggere gli anziani oggi significa non più solo illuminare a led gli attraversamenti pedonali ma anche immaginare la lentezza inevitabile del loro passo dentro gli ambienti digitali: anche in quel caso, se la si osserverà bene, una faccenda di design.
Né i più giovani sembrano uscirne indenni. Qualche giorno fa ho letto con enorme dolore l’intervista al padre di una bambina di dieci anni morta in circostanze drammatiche e ancora non chiarite. L’uomo, un signore siciliano di 33 anni, ingenuamente confessa al giornalista di aver regalato alla figlia lo smartphone per il decimo compleanno e spiega che lei aveva decine di profili su TikTok, Facebook e Instagram e che nessuno dei genitori la controllava perché non ne sentivano il bisogno, visto che era una bimba buona e fra loro non esistevano segreti. Niente descrive meglio di queste parole la profondità dell’analfabetismo digitale, la sottostima dei rischi che potrà riguardare tutti, anche le persone che si amano di più.
La domanda a questo punto è sempre la solita. Come potremo arrivare a queste persone, giovani o anziani che siano, come potremo – per usare la metafora di poco fa – indicargli il passaggio pedonale illuminato e evitar loro di attraversale la strada sfidando il traffico nel punto più buio? Il giovane muratore siciliano o il raffinato intellettuale in là con gli anni saranno sottoposti ai medesimi rischi e alle medesime opportunità. E con loro i bimbi di dieci anni e tutte le altre persone deboli e fragili che non sanno cosa sia una mail di phishing o una sfida idiota sui social, persone che, in una maniera o nell’altra, non potremo e non dovremo lasciare soli.
Il fatto è che non abbiamo molte armi. Una è evidente e chiara e nota a tutti ma ha il difetto di richiedere un discreto numero di anni per iniziare a mostrare i propri effetti ed è – lo abbiamo detto mille volte – l’educazione digitale a scuola. Lo abbiamo detto mille volte ma ricordo sommessamente che NON lo stiamo facendo. La seconda è sfruttare per quanto possibile il piccolo credito di autorevolezza che l’informazione ha conservato per spiegare le cose a chi vorrà ascoltare o – più probabilmente – passerà casualmente davanti a un televisore o ascolterà in auto un canale della radio o leggerà un giornale o un sito di news in rete. Spiegare cos’è il phishing alle persone in ascolto sarà complicato ma non sarà tempo sprecato. Per farlo serve un giornalismo migliore di quello che abbiamo e dentro quel giornalismo persone che conoscano gli ambienti digitali. E anche questo sarà complicato. Il giornalismo, come la scuola e come ogni altro ambito sociale di questo Paese, galleggia nel medesimo ed ampio analfabetismo digitale che è alla base di tutte queste difficoltà che abbiamo.
Giusto oggi su Charlie leggevo la dichiarazione del presidente dell’Ordine dei giornalisti che spiegava a La Stampa che utilizzare le foto prese dai profili social dei cittadini anche di quelli minorenni è una pratica tutto sommato lecita:
«Quando sei morto, sei morto, il diritto di cronaca prevale anche sulla tutela dei minori. Come li tuteli una volta che sono morti? Andavano tutelati prima semmai. Da morti vale “la livella” di Totò».
È una frase che mi ha colpito molto, di una volgarità piuttosto evidente, che si collega perfettamente con le due notizie che ho citato in precedenza. Diventeremo adulti quando comprenderemo che le nostre identità digitali non sono differenti da quelle analogiche e che richiedono un rispetto e un’attenzione che il giornalismo spesso non sembra essere in grado di riservare loro. È una frase rivelatrice di un’immobilità alla quale non sappiamo rinunciare: il mondo cambia in fretta, aggiunge complessità e valore, contemporaneamente aggiunge opacità e nuove difficoltà. Potremo provare a stargli dietro, con tutta l’intelligenza che riusciremo a dedicargli: in alternativa potremo rimanere fermi come sassi, avendo come unico punto cardinale un vecchio riferimento a Totò.