Retwittare i peggiori?
Oggi ho ascoltato il podcast di Matteo Bordone in cui si afferma, fin dal titolo, la necessità di non retwittare i peggiori. Le motivazioni, che sono note, ragionevoli e discretamente convincenti, mi pare siano sostanzialmente due:
– perché facendolo si ottiene l’effetto opposto
– perché si aderirà alla strategia mediatica di chi ogni giorno prepara un’agenda di temi e toni (poco importa se reali o inventati) che si presume scateneranno l’indignazione delle persone e che quindi saranno utili ad una loro ulteriore diffusione.
Bordone ammette che in alcuni casi limite l’indignazione sia non solo naturale ma perfino necessaria (fa l’esempio di quella volta in cui Matteo Salvini definì “zingaraccia” una donna rom) ma sostiene che nella maggioranza dei casi non sia una buona idea. Quale sia il confine fra le indignazioni necessarie e quelle superflue immagino sia difficile stabilirlo: nel caso più recente di un tweet di un professore universitario rivolto a Elly Schlein, da cui il commento di Bordone trae spunto, il silenzio sulla battuta maschilista del tizio sarebbe, a suo parere, del tutto necessario.
Al riguardo della questione “retwittare i peggiori” vorrei aggiungere un paio di elementi.
Il primo, molto generico e vago, riguarda l’indignazione. Io sono convinto che l’indignazione sia una reazione, forse a volte controproducente, ma sostanzialmente sana. Anche quando diventa numericamente sospetta, anche quando si trasforma in un atteggiamento che domina e agita le nostre vite. Anche quando – come molto spesso accade – diventa professionale o funge da valvola di sfogo alle proprie urgenze etiche che risulteranno in tal modo apparentemente appagate. Fra chi si indigna e chi invece non lo fa (per apatia, senso di superiorità o per raffinato calcolo intellettuale) io preferisco istintivamente i primi.
Anche acconsentendo alle motivazioni (condivisibili) di Matteo e di molti altri sulla bestia che manipola i nostri più autentici sentimenti, la domanda successiva da farci è:
Cosa ci stiamo a fare online? Di cosa ci occupiamo? Quale peso diamo alle nostre parole?
Esiste un equivoco molto comune che riguarda il peso delle parole sui social network le quali sono – lo abbiamo detto molte volte – per propria essenza, rapidissime, impulsive, autentiche e molto spesso perfino stupide. Eppure una volta separate da alcuni aspetti peculiari (la protezione dello schermo, la velocità istantanea) che non esistono fuori da Internet, si tratta delle stesse parole che pronunciamo ogni giorno della nostra vita, al lavoro, al bar, in metro, a casa chiacchierando con un amico. Le stesse parole, con i medesimi tic e le stesse motivazioni.
Qualcuno vorrebbe convincermi che le parole che pronuncio su Twitter dovrebbero essere diverse: che andrebbero maneggiate con maggior cautela e maggiore dignità. Capisco, ma non ne sono del tutto convinto. È vita vissuta il nostro essere online, racconto minuzioso e sentimentale anche dei nostri limiti e dei nostri difetti. La nostra vita sui social network è parlare scrivendo, non è scrivere scrivendo. Anche se poi le parole alla fine restano.
Mi viene in mente Carlo Cottarelli, stimato economista e, a un certo punto, quasi Presidente del Consiglio, che spesso su Twitter scrive sciocchezze casuali come tutti noi. Il profilo di Cottarelli, autentico e scoppiettante, è una piccola rivelazione che alcuni criticano ma che invece dovremmo tenerci cara: siamo tutti sciocchi e impulsivi, in una certa maniera e in una qualche percentuale, lo siamo ogni giorno, in rete come fuori, inevitabilmente. Il disvelamento, spesso non intenzionale, di queste nostre imperfezioni è un merito gigantesco delle reti sociali.
Così il tweet del tizio che ironizza su Elly Schlein usando come pretesto una foto sulla copertina de L’Espresso, dice cose di lui, ne dice tantissime, e certo – ha ragione Bordone – sarebbe meglio non parlarne. Tuttavia questo signore insegna all’Università, ha saldi legami politici e ha fatto del dileggio una sorta di tratto distintivo e quindi, da un certo punto di vista, forse sarebbe meglio – ha torto Bordone – parlarne estesamente. Perché quando il mondo è storto non gli si fa un bel servizio ignorandone la stortezza. Insomma, lo vedete che è complicato?
C’è un’ultima questione, molto seria e importante, forse la più seria e la più importante, attorno alla faccenda dell’indignazione e del retwittare i peggiori, e riguarda i numeri e i pregiudizi. Perché il fatto è che i numeri che simili tecniche persuasive saranno in grado di radunare, anche con la nostra complicità, scommettono ogni volta sulla stupidità delle persone. Sulla loro tendenza ad essere superficiali e manipolabili, sulle loro miserie e sulle loro codardie.
Il tratto principale, eticamente parlando, delle varie bestie e bestiole che sono nate e cresciute dentro la cattività di Internet, non è tanto quello di speculare quotidianamente sulla vita e sugli avvenimenti delle persone che vengono scelte come bersaglio, quanto piuttosto quello di investire sull’ignoranza di chi incrocerà simili informazioni, sulla svagatezza e la superficialità con cui utilizzeranno il mezzo. E questo è un chiaro tratto reazionario – nulla di particolarmente nuovo, il populismo se ne è nutrito durante tutto il secolo scorso – del quale troppo spesso tendiamo a dimenticarci o che diamo per scontato, forse perché lo riteniamo una barriera insormontabile. Una barriera sulla quale, in fin dei conti, nemmeno noi sembriamo avere grandi dubbi. Invece occuparsi di quella barriera sarà l’unica cosa intelligente che potremo fare.
L’approccio reazionario ai media, che non solo la politica ha utilizzato estesamente ma che spesso i media stessi hanno magnificato come grande intuizione comunicativa o geniale strategia propagandistica, talmente tanto che ormai sempre più spesso perfino loro l’utilizzano, è diventato oggi una tendenza dominante ed è cresciuto moltissimo anche grazie alla nuova platea commentante sui social network. Ed è – di nuovo – un tratto che scommette sulla scarsa cultura, sugli istinti più bassi e sulle miserie interiori di noi cittadini.
Chiunque si opponga a tutto questo, chiunque provi ad argomentare, a citare le fonti, a controbattere le bugie e le malignità che i peggiori vomitano in rete ogni giorno, proverà ad opporsi ad un simile pensiero conservatore: scommetterà sulle capacità delle persone di crescere, di informarsi, di sentirsi comunità.
Al professore universitario che insulta Elly Schlein, al suo afflato reazionario così chiaramente esposto, cos’altro potremo opporre se non un programma che preveda la riduzione del numero di cittadini che sorridono complici a simili tweet?
Molto spesso ci viene spiegato che sottolineare il pensiero reazionario negli ambienti digitali sia una forma di involontaria complicità, una maniera inconscia per mantenerlo vivo e vegeto. Io sinceramente non penso che stare zitti per paura di scatenare la stupidità della folla sia la soluzione. Consentire ai cittadini di crescere e ragionare con la propria testa è la soluzione.