Se ti odio ti cancello
La ormai famosa lettera firmata da una lunga lista di celebri scrittori ed editorialisti su Harper’s magazine ha scatenato una discussione che è in effetti molto americana. Tuttavia alcuni temi che contiene, che attengono alla libertà di espressione e ad alcuni meccanismi ormai ben rodati che cercano di limitarla, escono dai confini degli Stati Uniti e riguardano tutti noi.
Una frase in particolare:
Whatever the arguments around each particular incident, the result has been to steadily narrow the boundaries of what can be said without the threat of reprisal.
È ciò che accade ovunque, anche da noi, ed è il risultato di dinamiche recenti che si ripetono sempre più spesso.
Gli elementi costitutivi di un sistema di controllo e intimidazione basato sulla “cancel culture” sono tutto sommato pochi.
Servono le reti sociali, piattaforme possibilmente molto frequentate che sappiano amplificare in maniera rapida il messaggio. Servono strutture tecniche di supporto, capaci di creare la prima onda di propagazione di una notizia o di una critica, di un’indignazione o di un pettegolezzo insinuante. Serve, alla base di tutto questo, una macchina dotata di tentacoli, orecchie sempre in ascolto e capacità editoriale. Una volta che ci si sarà dotati di simili attrezzi sarà possibile utilizzare gli infortuni, le incertezze, i refusi o anche solo la libera espressione delle opinioni altrui (e quindi la capacità positiva di ciascuno di offrire punti di vista differenti o non convenzionali) per le proprie finalità.
La capacità censoria di simili pratiche, che nascono e sono a tutti gli effetti tentativi reazionari, non risultano così immediatamente percepibili. Sono censure ma assomigliano a punti di vista (sovente punti di vista popolari e ragionevoli, vicini al comune sentire delle persone); sono tentativi di condizionare l’ampiezza del discorso pubblico non attraverso limitazioni fisiche, libri bruciati, bocche tappate, intimidazioni urlate, ma utilizzando armi indirette meno fragorose ma egualmente efficaci. Che hanno come risultato finale quello di rendere asfittica e eccessivamente cauta la discussione pubblica e, facendo questo, annichiliscono il pensiero progressista, costringendo chi esprime idee e posizioni pubbliche “di frontiera” a continue non necessarie cautele. E quando non sono costruite a tavolino simili dinamiche sono il risultato di una grande onda di massimalismo digitale che si genera autonomamente e che sembra non lasciarci scampo.
Internet, nata come la palestra del dialogo estremo fra posizioni inconciliabili, cresciuta nell’illusione che attraverso un simile confronto di punti di vista divergenti la società nel suo complesso ne avrebbe guadagnato in sapienza e comprensione dell’altro, si è trasformata nel luogo del rischio intimidatorio: rischio che sarà tanto più grande quanto più le persone che oseranno offrire posizioni dissonanti e inedite saranno celebri e professionalmente riconosciute. Saranno costoro i bersagli perfetti del censore o della folla urlante: la vasta indignazione che sarà possibile raccogliere nei loro confronti servirà, come nelle migliori tradizioni, ad educare tutti gli altri.
E questo accade non solo per ovvi e miserevoli limiti culturali di ciascuno di noi ma perché l’architettura digitale, nella sua ingordigia, ha tramato contro l’intelligenza collettiva o quel poco che ne era rimasto. Lo ha fatto centralizzando le discussioni (mentre Internet era nata e funzionava assai meglio dentro ambienti piccoli e decentralizzati), ha imposto una dieta mediatica basata su brevi rapidi frammenti, lettere maiuscole e frasi apodittiche da preferirsi ad ogni ragionamento estesamente esposto, ha polarizzato i temi ed i toni di ogni discussione privilegiando inevitabilmente le scelte di chi ha saputo piegare il nuovo medium ad immediatezza e brutalità.
Quello che dice di importante la lettera a Harper’s di J.K.Rowling, Noam Chomsky, Martin Amis e tanti altri è che il confine fra quello che possiamo e non possiamo dire è da sempre il territorio dell’innovazione culturale e come tale deve essere preservato. È in corso un tentativo reazionario per provare a cancellare ogni diversità. È un ricatto odioso, fatto di parole, che ogni persona amante della libertà dovrà trovare la maniera di combattere.