La pandemia e il sudario conservatore
Il coronavirus, la pandemia e il lockdown forse non ci avranno reso migliori ma, per lo meno, hanno avuto il merito di tracciare una linea di demarcazione. Il confine, a lungo minimizzato, fra conservazione e progresso, fra tutela dello status quo e innovazione.
L’attitudine alla conservazione o, viceversa, le euforie verso un mondo nuovo, da tempo ormai non sono più identificabili con una certa parte politica, meno ancora con gli orientamenti di un eventuale gruppo di intellettuali. Nella attuale polverizzazione di ogni opinione l’idea romantica e inesatta che l’innovazione sia patrimonio dei progressisti, e che la tutela del potere sia un presidio conservatore, è definitivamente saltata. Questa nuova confusione di ruoli deve molto alla centralità assunta da alcune aziende tecnologiche diventate, nel giro di pochi anni, i luoghi di residenza digitale per miliardi di persone in tutto il mondo.
La reazione difensiva che “il sistema” ha tentato nei confronti di questi nuovi potenti non ha fatto altro che avvicinare le posizioni di molti, come avviene quando ci si trova di fronte ad un nuovo inatteso pericolo: la risposta ai giganti del tech ha assunto sovente i connotati di un’opposizione dai tratti chiaramente reazionari. Contemporaneamente è assai arduo immaginare Facebook o Twitter, Amazon o Google come i paladini di una nuova democrazia digitale: ci abbiamo creduto forse all’inizio per qualche istante, poi ci siamo svegliati.
Perfino nell’America del Primo Emendamento il candidato democratico Biden ha annunciato che se diventerà presidente abolirà la famosa section 230 del Communications Decency Act, il presupposto di legge attraverso il quale Internet si è sviluppata negli ultimi trent’anni riuscendo a mantenersi passabilmente libera, per lo meno in buona parte dei paesi occidentali. Un piccolo comma di legge che andrebbe innalzato a simbolo di libertà e che riceve invece nuove attenzioni censorie. Ironia della sorte anche il prossimo avversario di Joe Biden, il Presidente in carica Donald Trump, ha recentemente attaccato Twitter, una delle piattaforme che dominano lo scenario, annunciando modifiche a quello stesso comma di legge. La reazione allo strapotere delle piattaforme unisce insomma destra e sinistra e avvolge tutti, indistintamente, dentro un unico sudario conservatore. Trump ci si troverà benissimo, Biden non so.
In Italia, dove tutto si ripete assumendo spesso i toni della farsa, potremo reclamare una qualche progenitura al riguardo. La nostra diffidenza verso Google o Amazon, verso Facebook o Twitter nasce e si sviluppa assai prima del loro diventare oligopoli di fatto. Si manifesta molti anni in anticipo, quando il mostro digitale è ancora in fasce, e questo non per particolari preveggenze ma perché la diffidenza verso ogni trasformazione è iscritta nel codice genetico dei cittadini di questo Paese e quindi, inevitabilmente, si riverbera nei politici che elegge e negli intellettuali che si sceglie come guida.
Il sudario conservatore in Italia è una sorta di divisa d’ordinanza: avvicina dentro la medesima trincea truppe eterogenee, accomunate da un unico punto in comune: l’avversione per ogni innovazione che non sia quella a parole (particolare ambito dialettico, quello dell’innovazione a parole, nel quale i partiti riformisti nostrani sono campioni del mondo).
Se vi chiedete come mai in un ventennio di trasformazione digitale a tappe forzate in Italia non una sola legge dello Stato sia stata in grado di interpretare e modellare l’innovazione che stava avvenendo sotto gli occhi di tutti, riuscendo al massimo a complicarla o, talvolta, ad impedirla, la risposta è semplice: perché tutti indistintamente erano impegnati a fronteggiare un pericolo che rischiava di incrinare i privilegi del sistema. E nel sistema, come è noto, i privilegi sono di quasi tutti: sono a destra e sono a sinistra. Ogni Paese immobile come il nostro è bloccato comunque: a destra come a sinistra.
In assenza di una cultura digitale autonoma, di una elaborazione intellettuale su come dovrà essere il futuro, su come gestire l’innovazione tecnologica, tutto si trasformerà in un dialogo fra simili.
Così i leghisti alla Pillon e i riformisti del PD voteranno assieme in commissione scimmiottando una ridicola vecchia idea di Theresa May per eliminare il porno da Internet, così una turba di intellettuali capitanati dal filosofo televisivo Cacciari imporrà alla Ministra dell’Istruzione l’idea di una scuola che debba rinunciare ad ogni approccio digitale per tornare alla sua placida essenza novecentesca, così il sindaco di Milano Beppe Sala dirà, con simpatica chiarezza meneghina, che ora però basta con questo smart working, che è ora di tornare a lavorare. Una frase perfetta, da un certo punto di vista, rivelatrice come le altre di una mentalità che prima è rimasta mimetizzata dietro le contingenze della pandemia e che poi finalmente, appena ha potuto, ha rivelato la propria essenza di allergia provinciale ad ogni novità.
L’idea di un mondo, quella di Cacciari o di Pillon, quello del PD che vuole incentivare l’acquisto di nuove auto Euro 6 o di Conte che cita il Ponte sullo Stretto, quella di Sala sul lavoro vero o quelle degli editori che mentre nessuno acquista più i loro giornali di carta si scagliano contro Facebook o contro Telegram come se fossero loro la causa del loro business declinante, che è – a ben vedere – un unico solo e gigantesco problema.
La trasformazione digitale ha imposto sé stessa a tutti noi, lo ha fatto brutalmente, senza chiedere permesso: dall’altra parte si è trovata una classe dirigente totalmente incapace di comprenderla e governarla. Da un simile crash fra arroganze evidenti e mediocrità manifeste, sta nascendo il futuro che lasceremo ai nostri figli. A guardarlo da qui oggi, mentre la pandemia un po’ si allontana da noi, assomiglia moltissimo ad una grande occasione persa.