Le idee di Colao e quelle del Presidente
Ho dato un’occhiata al corposo, articolato e ormai famoso Piano Colao, soffermandomi sulle (poche) parti che riguardano i temi che mi stanno a cuore: soprattutto infrastruttura e cultura digitale in genere.
Le due schede più importanti da questo punto di vista sono quella in cui si ipotizza una riorganizzazione dell’offerta infrastrutturale per la banda ultralarga e quella che riguarda l’ormai mitico 5G.
Sul cablaggio dell’Italia digitale – argomento che Colao per storia professionale immagino conosca assai bene – il tentativo sembra essere quello di provare a mettere ordine in un enorme guazzabuglio di ritardi, assurdità, inesperienze e improvvisazioni che risalgono agli ormai vecchi litigi fra il governo Renzi e Tim, alla nascita di Open Fiber e alla guerra che ne è seguita con l’ex monopolista, caratterizzata dai soliti colpi bassi, dalle denunce, dalle multe delle Authority ma, soprattutto, da un sostanziale fallimento riguardo all’unico fatto davvero politicamente rilevante: la costruzione di una infrastruttura digitale per il Paese capace di raggiungere tutte le case e le aziende armonizzando le competenze e le risorse esistenti.
L’idea di Colao è quella, vecchia di almeno un decennio, di immaginare una sola rete ultrabroadband a disposizione di tutti gli operatori attraverso la quale offrire le proprie proposte commerciali di connettività, per lo meno nelle cosiddette aree grigie e bianche. È forse l’unica prospettiva possibile in effetti, con il piccolo limite che andava decisa e realizzata dieci anni fa.
Un’idea che – dieci anni fa come oggi – si scontra con l’assenza di comprensione della centralità del problema da parte della politica, la quale, quando parla di infrastruttura, si riferisce esclusivamente alle autostrade, al ponte sullo Stretto, ad Alitalia e ai Freccia Rossa.
Il secondo consiglio di Colao riguarda la nuova rete mobile 5G. Nonostante al momento in Italia più di duecento comuni abbiano annunciato la propria indisponibilità a ospitare le “pericolosissime” reti 5G, applicando una versione molto ampia del principio di precauzione e pretendendo, prima di dare il proprio via libera, studi scientifici che ne attestino l’innocuità, lavori che, se tutto andrà bene, saranno pronti fra un paio di decenni, Colao consiglia il governo di elevare la dose di soglia di inquinamento elettromagnetico, che in Italia è di gran lunga la più bassa d’Europa, alla media degli altri Paesi del continente. Insomma, un’idea controcorrente oppure, se preferite, la tipica irruzione dell’elefante in cristalleria.
Il resto delle proposte del piano che ci interessano sono le stesse che ascoltiamo da anni: incentivi per le startup, la digitalizzazione della P.A. (lo so, fa ridere), l’industria 4.0 ecc. ecc. Di nuovo c’è – forse – l’impostazione di stampo anglosassone di una certa idea di formazione didattica, quella secondo la quale le uniche lauree che contano davvero siano quelle delle cosiddette discipline STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). In ossequio all’idea secondo la quale il futuro professionale e intellettuale, progressivo e bellissimo di tutti noi, sarà affidato alle sapienti menti degli ingegneri e dei tecnologi e di nessun altro.
Il prodotto culturale che abbiamo di fronte agli occhi, costruito da un simile dominio intellettuale dei migliori ingegneri e dei loro magici algoritmi nell’ultimo decennio, evidentemente a Colao non suscita alcun dubbio.
Il vero divario digitale italiano, fatto non solo di infrastruttura ma soprattutto di competenze e curiosità individuali dei cittadini, com’era nelle attese, non ha meritato alcuna scheda. Si tratta del resto del più complesso e difficile problema che l’Italia digitale ha di fronte a sé, aggravato dal fatto che nessuno intende farsene carico.
Tuttavia l’aspetto paradossale, il paradosso di questa discussione e perfino di questo articolo, è che l’idea stessa del Piano Colao è un’idea sbagliata, a prescindere da Colao, dai tecnici che lo hanno aiutato e dalle parole faticosamente composte nel lungo documento di cui stiamo dicendo. Ed è sbagliata perché la politica non si fa così.
Non si espone l’esperto come fosse una bandiera: uno schema che questo governo ha ripetuto in molte occasioni durante questi mesi terribili. Non si mostra dal davanzale della propria finestra il tecnologo o il medico o l’imprenditore di successo, in una sfilata di persone autorevoli chiamate dalla politica al difficile compito di salvare il Paese. La politica fatta in questo modo è tanto semplice quanto infida. Così ora il piano Colao verrà sottoposto alle critiche e alle analisi, sarà magnificato dagli amici e criticato dagli oppositori, sarà sminuzzato dai mille altri Colao che lo avrebbero fatto meglio e, dopo questo enorme brainstorming, la politica deciderà come meglio le converrà. Se le cose andranno bene sarà merito suo, se andranno male sarà colpa di Colao.
Nei paesi normali, dove i Colao esistono come da noi, il presidente del Consiglio alza il telefono e chiede a Colao di aiutarlo. Colao che è gentile e ama il suo Paese si mette d’impegno e produce cento schede di suggerimenti per il Presidente del Consiglio. Il Presidente le legge, le valuta con i suoi altri consulenti, ne discute con gli alleati di governo, poi si affaccia al davanzale di Palazzo Chigi e dice: eccomi, queste sono le idee del Presidente del Consiglio. Se le idee di Colao saranno buone idee sarà merito del Presidente del Consiglio. Se saranno cattive sarà colpa del presidente del Consiglio.