Internet come laboratorio dell’ingiustizia
Non so se i tempi siano maturi perché i nodi vengano al pettine. Cioè se davvero, come talvolta sembra, si sia oltrepassata la linea oltre la quale Internet diventa un gigantesco suk ingestibile il cui effetto sia un peggioramento complessivo dei nostri standard di civile convivenza. Quello che so è che negli ultimi trent’anni altre volte ci siamo trovati in situazioni simili a quella odierna, ma erano altri tempi, Internet era molto più piccola e marginale, economicamente meno rilevante, assai meno importante nella costruzione del consenso politico. C’erano forse anche meno squali e meno cretini in giro, non so.
A proposito degli squali e dei cretini eccoci alla nuova guerra, di queste ore, fra Donald Trump e Twitter: un confronto aspro, che si trasforma, inevitabilmente e da subito, nella discussione mondiale sulla libertà di espressione e sul ruolo degli intermediari. Un tema fondamentale, che riguarda tutti, capace di condizionare in maniera importante la nostra vita futura.
Sui termini della questione ha prodotto uno stringato e ben fatto riassunto Riccardo Luna su Repubblica. Nel pezzo di Luna sono soppesate le nostre attuali incertezze: mentre scrivo la situazione sta ulteriormente evolvendo (Twitter ha appena segnalato un altro tweet di Trump) e allora forse sarà utile provare a ignorare la cronaca per immaginare cosa potremo fare per mettere in salvo il più grande laboratorio di diversità ed intelligenza che l’uomo abbia saputo creare dai tempi dei caratteri mobili.
Pochissimi sanno che la famosa section 230 del CDA di cui tanto si parla oggi, il comma fondamentale che ha consentito a Internet di crescere, l’ancora di salvezza che solleva i gestori di piattaforme di rete dalla responsabilità sui contenuti che i loro utenti mettono in rete, è la versione legislativa di una vecchia frase che girava su Internet a metà degli anni 90 sulla stupidità del network. Solo le reti stupide – sosteneva allora David Isenberg – quelle che non sanno cosa transita attraverso i loro fili, sono destinate al successo. I network neutrali sono una garanzia per il futuro da molti punti di vista: consentono parità di accesso a chiunque favorendo così innovazione e talento, limitano al massimo i tentativi egemonici dei grandi gruppi di potere economico o politico, ampliano le possibilità di conoscenza per chiunque, mettendo sullo stesso piano idee e opinioni contrastanti e antitetiche.
Il successo planetario di Internet è tutto qui, e quello che è in discussione in queste ore è – di nuovo – tutto qui.
Ciò che forse non era chiaro allora ma che è diventato lampante da un po’ di anni a questa parte è che la rete stupida è il laboratorio dell’ingiustizia e che come tale andrebbe accettato. Che la nostra futura intelligenza, se davvero ci interessa, passa attraverso la presa d’atto e l’analisi di tante piccole ingiustizie. Per esempio le bugie che il Presidente degli Stati Uniti scrive da anni su Internet.
Internet è il luogo dell’ingiustizia e ci sarà utile mantenerlo tale ad alcune condizioni. Solo a quelle condizioni resterà un valore enorme per tutti noi e per tutti quelli che sapranno apprezzarlo in futuro.
La prima è che il network sia accessibile a chiunque (Trump compreso), che resti stupido insomma, ma che dentro il network chiunque possa poi fare ciò che ritiene. Quindi che Twitter o Facebook possano continuare a disporre dei propri termini di servizio come meglio credono, fatte salve alcune eccezioni che attengono ai reati eventualmente commessi da quelle parti. Mark Zuckerberg, che oggi moltissimi accusano di eccessiva vicinanza a Trump, lo dice da sempre e che lo dica per interesse o per sincera convinzione per me non è così rilevante: “Non siamo noi – dice il fondatore di Facebook – i guardiani della verità”. Chiunque potrà iscriversi ad un social network sapendo che quello che troverà da quelle parti sarà, con una qualche approssimazione il laboratorio dell’ingiustizia. Di laboratorio in laboratorio, di punto di vista in punto di vista, la nostra intelligenza avrà il nutrimento per crescere rigogliosa e soprattutto autonoma.
Il secondo punto, direttamente collegato al primo è invece una chiara faccenda di politica delle reti. Invece che occuparsi del falso problema della trasformazione delle piattaforme in soggetti editoriali, una discussione accademica insincera e interessata, perché tale trasformazione – lo sanno bene molti dei suoi sostenitori – significherebbe la fine di Internet, sarebbe più utile considerare che le attuali grandi debolezze democratiche che i grandi social network mostrano sono la conseguenza della loro ipertrofia. I laboratori di ingiustizia funzionano egregiamente dentro ambiti decentrati, che sono l’architettura ideale del network, diventano una seria minaccia al contesto democratico – e un’irresistibile attrazione per gli squali e i cretini – quando chiudono in un recinto miliardi di persone contemporaneamente.
Così l’unico percorso possibile oggi per governare Internet e le sue trasformazioni è quello antitrust. Non tanto per ragioni economiche che pure esistono e sono assai evidenti, ma perché gli enormi laboratori dell’ingiustizia sono una minaccia concreta alla nostra convivenza democratica. Perché sono adulterabili con facilità, perché rispondono ad una logica broadcast dentro un ambiente con una differente architettura. Se invece di un solo Twitter ne esistessero cento, ognuno con le proprie caratteristiche, cancellare un messaggio pieno di bugie dell’uomo più potente del mondo non si trasformerebbe in un tema di discussione planetaria ma sarebbe la semplice traslazione di un pensiero irrilevante da un piccolo laboratorio di ingiustizia ad un altro.