Il giornalismo e la poltiglia intorno
Sono favorevole al finanziamento pubblico ai giornali. Lo vado ripetendo in giro da qualche anno, prendendomi le prevedibili pernacchie. Lo sono perché penso che i media professionali siano importanti, che il ruolo del giornalismo nei tempi digitali sia perfino accresciuto, che l’attuale crisi economica che sta interessando la categoria non abbia precedenti. E che piuttosto che attivare le solite lobbies decotte, a Bruxelles o a Roma, nel tentativo disperato di spillare soldi a chi ne ha (quasi sempre fra quelli che si occupano di faccende digitali limitrofe al giornalismo) sarebbe più onorevole che fossero i cittadini stessi a pagare il servizio. Una sorta di piccola tassa a favore della democrazia sulla quale, con l’aria che tira dopo un decennio di populismo grillino, nessuno in Italia sarà ragionevolmente d’accordo.
Fino a qualche tempo fa pensavo che il criterio unico sul quale basare un simile finanziamento (nessuno immagina di tornare al regime precedente in cui soldi pubblici a pioggia finivano anche al mensile Cavalli e Segugi) fosse – diciamo così – un criterio di minima. Un’aspirazione prudenziale, visto che la qualità media dei giornali in Italia è oggi percepita da molti in un range che va dal “molto modesta” a “in caduta libera”. E il criterio, nella mia testa di provinciale ingenuo, era quello del minor danno. Provate – se vi riesce – a scrivere notizie meno false e interessate, meno smaccatamente schierate, più vicine ad una descrizione piana dei fatti, immaginate e confezionate i giornali per un lettore meno stupido e meno maneggiabile di quello che credono i vostri investitori o i vostri padrini politici. Ogni tentativo – insomma – di restituire al giornalismo un ruolo etico e alto nell’informazione, che unisca editori e giornalisti: ecco, tutto questo meriterebbe di essere premiato. E finanziato.
Certo è il mondo dei sogni ma al momento alternative non mi pare ne esistano. Se vogliamo un’informazione migliore di quella che il mercato attualmente offre dovremo metterla in carico alla comunità, immaginando criteri di selezione che allontanino i furbi e i cialtroni e diano incentivi a quelli bravi e onesti. Che sono molti e sono in giro, spesso relegati ai piani bassissimi dell’ormai pericolate edificio informativo.
Oggi – e qui la ragione di questo pezzo – penso che uno dei criteri da aggiungere per essere considerati dal mio formidabile e immaginario finanziamento pubblico ai giornali, dovrebbe essere smetterla di rimbalzare le polemiche i pettegolezzi e le discussioni che riempiono ogni giorno i social network. Volete essere aiutati dai cittadini e ricominciare ad essere considerati indispensabili pilastri della democrazia? Piantate di scimmiottare Facebook e Twitter nella ricerca di lettori. Che alla fine le piattaforme digitali ci guadagnano e voi no. Piantatela di rimbalzare notizie inutili come quelle sulle polemiche sui vestiti del Ministro dell’Agricoltura, di dare dignità informativa e notorietà ai post politicamente scorretti su Facebook di assessori comunali di paesini sperduti o di oscuri giornalisti Rai. Rinserrate le fila, insomma. Tornate ad occuparvi di cose serie, immaginate per i vostri lettori un’agenda informativa che sia migliore di loro e non uguale a loro. Solo in questa maniera sarà possibile per l’informazione tornare a giocare un ruolo nel complicato panorama della nostra corrosione digitale.
In un articolo di oggi su Repubblica – un pezzo che rispecchia la logica extraterrestre di molta della critica giornalistica agli ambienti digitali – Concita De Gregorio inanella una serie di luoghi comunissimi e pur veri sulla deriva delle conversazioni di rete:
Votate. Mettete like. Dite la vostra, e che sia una battuta sagace. Insultate, se non sapete fare di meglio, così qualcuno si indignerà dei vostri insulti e avremo la cronaca di domani: le voci in difesa della vittima. Un talk show, di certo, con favorevoli e contrari ai farpali blu che si urlano addosso, magari se abbiamo fortuna uno dei due abbandona lo studio e si impenna l’audience, il frammento video finisce in home page e fa milioni di clic. Bingo.
Poi spiega che i media non avranno alternative a parlare del ciarpame che i social producono a getto continuo, poi consiglia la lettura di un libro di Franklin Foer sul ruolo malefico degli algoritmi delle piattaforme cattive.
Si occupa di tutti insomma De Gregorio, giudica il sistema (che ha grandi ragioni per essere giudicato) e ignora il proprio ruolo giornalistico che, all’interno di un ambiente nel frattempo diventato enorme e onnicomprensivo, è mutato radicalmente.
E’ tutto un “noi e loro” nella polemica giornalismo-piattaforme social, è tutto uno stigmatizzare gli altri e i loro difetti, mentre si ignora sé stessi e i propri. E il povero lettore resta come strangolato nel mezzo: fra le cazzate che legge sui social e i commenti vibranti degli editorialisti a quelle stesse cazzate sulla prima pagina dei giornali di carta.
Smettetela, parlate di cose serie: se lo farete avrete i soldi dei miei cittadini immaginari. Continuate così e nessuno distinguerà più il giornalismo dalla poltiglia informe che ci avvolge tutti.
Faccio presente, se non ve ne siete accorti da soli, che siamo a buon punto.