L’odio online e gli intellettuali
Michela Murgia, in un articolo su Repubblica intitolato “L’odio online, la ruspa delle parole” cita testualmente alcuni commenti violenti che le sono stati inviati su Facebook dopo essersi espressa pubblicamente a favore dell’accoglienza dei migranti. Ne cita tre. Tre fra i moltissimi. Questo è l’incipit del pezzo:
Sono favorevole alla progettazione di un’accoglienza ai migranti che sia il più ampia possibile. È bastata questa frase – messa online dopo la Repubblica delle Idee di Bologna – perché il giorno dopo il mio telefono alle dieci del mattino avesse già la casella piena di messaggi allarmati. In un gruppo Facebook chiamato “Uniti a Salvini” (ora reso privato dagli amministratori) decine di sconosciuti stavano scrivendo cose come questa: “Un nero ti deve trafiggere”. “Fatti inculare”. “Spero che ti violentano, così vediamo cosa succede”. La signora che mi augurava lo sgrammaticato stupro è una pensionata che posta foto di cani e crede in Salvini e in Nostro Signore Gesù. Avrà l’età di mia madre e indossa maglioncini pastello.
Il commento di Murgia descrive una condizione già nota e molto ben studiata sulla quale non c’è molto da discutere. Negli ambiti digitali esistono nuove rilevanti forme di violenza verbale e tali espressioni d’odio sono rivolte in maniera prevalente verso le donne.
Tuttavia Murgia, come molti prima di lei, fa ciò che in simili situazioni andrebbe forse evitato. Crea una scorciatoia emozionale verso i suoi lettori. Banalizza la complessità delle relazioni in rete e le piega ai propri scopi dialettici. Applica intenti riassuntivi a sostegno della propria tesi. Una tesi che non ne avrebbe alcun bisogno tanto essa stessa è chiara e cristallina. Dentro una rete che contiene “tutto” vola di fiore in fiore a scegliere le parole più interessanti. Il punto di enorme fascinazione al quale la scrittrice non riesce a sottrarsi è che la banalità del male, quando la applichiamo all’estrema periferia del nostro mondo (nel caso di Murgia una signora anziana con il maglioncino pastello) assume quei toni inevitabilmente didascalici che attraggono il lettore.
Si tratta, a ben vedere, dell’usuale approccio giornalistico ai temi di rete: nell’impossibilità anche tecnica di rendere conto della inestricabile complessità delle discussioni ci si concentra su alcune, quelle a noi maggiormente utili, quelle dotate della giusta carica riassuntiva. Una forma di racconto della realtà che è in parte scusabile negli ambiti informativi (anche se l’estrazione di millimetriche parti del discorso dagli ambiti digitali a sostegno di una tesi qualsiasi è una usuale e diffusissima forma di adulterazione) ma francamente deludente se applicata alla critica intellettuale. Murgia è una scrittrice di talento: da lei (e da Repubblica che sta battendo il tamburo della propaganda su quell’articolo) il lettore potrebbe aspettarsi uno scatto in più.
Né risulta molto chiaro cosa Murgia farebbe per arginare questa valanga di parole d’odio; sembra di intravedere, nelle frasi contenute nell’articolo, un suo auspicare (impossibili) provvedimenti censori applicate alle piattaforme di rete, un altro – per così dire – scatto banalizzante verso la ricerca di soluzioni semplici a temi complessi.
Il ruolo degli intellettuali, sempre che ne esista uno, nella grande Babele della discussione di rete e della società degli algoritmi, sarebbe quello di occuparsi di temi fondanti applicando ad essi un pensiero finalmente originale e inedito. Invece gli intellettuali, i progressisti, gli esperti, gli editorialisti, parlano ormai ogni giorno con i toni e la profondità dell’uomo della strada. E con quel tono e quella profondità, dalle poltroncine in pelle di uno studio TV o dalle pagine di un grande giornale, provano a spiegarci il mondo con le stesse parole esatte che utilizzeremmo anche noi.