Cosa potremo dire di Assange
A un certo punto su Julian Assange è diventato impossibile dire qualsiasi cosa. È semplicemente accaduto, non è colpa di nessuno. Da un certo momento in avanti, dire qualcosa di sensato su Assange, qualcosa di non ovvio e cialtrone, di vagamente correlato ad un’idea minima di verità sulla vita e le gesta dell’hacker australiano dai capelli argentati è diventato non solo complicato ma perfino inutile. Troppe cose nel frattempo si erano sommate, troppe bugie, troppe interpretazioni di segno opposto si erano saldamente ancorate alla biografia di un uomo indubitabilmente unico, i cui tratti biografici e di comportamento hanno disegnato fin dall’inizio, a complicare ulteriormente le cose, i tratti della stranezza, se non quelli del disturbo psichico.
Così oggi, nel momento in cui si è concluso il suo esilio dentro l’ambasciata dell’Ecuador a Londra, la prima cosa che mi sentirei di scrivere è questa: la grande maggioranza delle cose che avete letto su Julian Assange sui media in questi anni sono superficiali e interessate, quando non completamente false. Esattamente come lo sono una buona parte delle cose che ho letto su Twitter oggi da parte di politici, commentatori e giornalisti che commentavano il suo arresto. Lo sono per motivi diversi, che riguardano l’uomo e il suo approccio ai temi digitali, ma che attengono in parte anche alla discussione pubblica sul ruolo del giornalismo, oltre che alla lunga invisibile mano del potere che tutto sposta e tutto modella. Assange stesso, del resto, è stato vittima e complice di simili macchinazioni.
Per un tentativo complessivo e onesto, giornalistico nel senso più alto del termine, di inquadrare la storia di Julian Assange e di Wikileaks, rimando al lunghissimo pezzo pubblicato sul New Yorker da Raffi Khatchadourian nel 2017; non prima di aver osservato che su Assange, esattamente come su Snowden, anche la riverita stampa americana, quella liberal e dalle grandi tradizioni di correttezza e trasparenza, ha dato spesso in questi anni il peggio di sé.
Non è un mistero del resto che le battaglie dei guerriglieri digitali metà hacker e metà ippogrifo, in volo sopra le malefatte dei governi del mondo e a un certo punto condannati ad un esilio per nulla dorato, abbiano ottenuto, sia nel caso di Assange che in quello di Edward Snowden, di mettere d’accordo quasi tutti. Accadde a un certo punto perfino a Barack Obama che su Snowden si comportò – per una volta – come il più impresentabile dei codardi.
Così se nulla di definitivo si potrà dire oggi sull’intricatissima vicenda di Assange a cavallo fra le mail di Hillary Clinton, gli occhiolini di Donald Trump, gli hacker russi, l’ambasciata dell’Ecuador, il suo gatto, le uscite pubbliche deliranti sul balconcino a Knightsbridge, i documenti pubblicati con o senza i grandi media internazionali, due cose rimangono fuori da una simile caos.
La prima è l’ingenuità semplificatoria dell’etica hacker: quell’idea romantica e totalmente insensibile alle complessità del mondo che immagina di cambiarlo attraverso processi di nuova trasparenza digitale. Assange ne è stato fin dagli inizi uno dei più accaniti sostenitori. Un’idea che nasce spesso dentro la solitudine digitale del diverso, quella di cui Assange ha parlato spesso, e che termina mediamente dentro grandi disastri e con la sensazione di essere stati usati – alla fine – da qualcuno più furbo e più cinico di te.
La seconda è che un simile atteggiamento, ingenuo e dirompente allo stesso tempo, possa essere comunque di una qualche utilità alla verità. Quando Wikileaks nel 2010 pubblicò “Collateral Murder” dimostrò, magari anche solo per un brevissimo istante, che c’era uno spazio di manovra dentro le reti digitali per rendere il mondo un posto migliore. E che le responsabilità di racconto e trasparenza erano potenzialmente di tutti. Non si trattava solo di nuove forme di giornalismo (un modello sperimentato poi qualche anno dopo dalla collaborazione fra Snowden e alcuni grossi media internazionali) prodotto a margine se non fuori dai canoni classici della professione, ma di una constatazione del mondo connesso. Delle sue fragilità, così come delle sue possibilità.
Quando Wikileaks rese planetaria questa illusione di rivolta digitale la reazione non tardò a dare segno di sé. Un fronte compatto chiarì immediatamente che una simile idea era troppo pericolosa perfino dentro la grande democrazia americana e doveva essere fermata. E che questo avvenisse attraverso improbabili accuse di stupro per il matto dai capelli strani o con il blocco del crowdfunding a Wikileaks da parte di Paypal, Mastercard o Visa, come se i cittadini del pianeta connessi e desiderosi di verità non potessero partecipare nemmeno simbolicamente all’operazione, non aveva molta importanza.
Così mentre Assange ci metteva del suo, magari affermando che “il giornalismo non meritava di vivere” tutto il quadro diventava ogni giorno più torbido. E mentre Joe Biden diceva che Assange era un “terrorista ad alta tecnologia” e gli hacker russi dai nick esotici iniziavano ad utilizzare Wikileaks come la lavanderia per la propria propaganda e sulla stampa iniziavano a comparire ritratti sempre più assertivi sull’uomo Assange e le sue idee strambe, a un certo punto parlarne con un briciolo di attenzione alla complessità è diventato forse impossibile.
Resta – questa sì difficile da discutere – l’idea ingenua di migliorare il mondo in cui viviamo attraverso buone pratiche digitali che siano per una volta associate alla moralità delle persone; resta il disvelamento, magari momentaneo e ambiguo, delle miserie e della violenza del potere, specie quando tali miserie e tali violenze provengono – sorprendentemente – dalla parte dei “buoni”.
Di tutto il resto si potrà continuare a discutere ma di queste due cose sarebbe onesto riconoscere un piccolo tributo a Julian Assange. Magari lasciando tutto il resto, tutto quello che è venuto dopo di questa intricatissima storia, dentro l’usuale magma che unisce sorveglianza e propaganda, servizi segreti, informazione e democrazie ballerine.
I governi sono malvagi – dice Assange al suo intervistatore al termine del pezzo sul New Yorker. Ebbene nulla è più ingenuo di così. Nulla, contemporaneamente, è più vero di così. Ogni tanto ci servirà qualcuno che ce lo ricordi.