Due cose al volo su Bandersnatch
Una volta si diceva che gli ipertesti vanno bene per un’enciclopedia e non vanno bene per raccontare una storia. Per ovvie ragioni: perché la storia segue una idea, qualcuno ne ha immaginato uno svolgimento e ha vagliato fra differenti ipotesi quale sia la migliore da proporre al lettore/spettatore. Un ipertesto è un’altra cosa, uno scaffale di testi comunicanti (e di perle sepolte ad enormi profondità) offerto alla curiosità di chiunque.
Gli ipertesti poi sono figli di un’epoca, quella che precede e e poi si concretizza con la nascita di Internet, la cui architettura, come è noto, proprio sui link è basata. La Internet fatta di collegamenti diventa quindi un gigantesco ipertesto nel quale sarà possibile perdersi in maniera molto confortevole.
Anche perdersi del resto è un’idea figlia di un’epoca. Nasce, puntiforme, forse con i primi eremiti nel terzo secolo, passa dai flâneur parigini di baudelairiana memoria per arrivare a tempi più recenti nei quali serviva una biblioteca e molta determinazione. Dalla fine del secolo scorso acquista un più folto pubblico: per perdersi basterà una scrivania e una connessione Internet. Da allora iniziarono a essere utili incoscienza, amore per accademia, molto tempo libero, curiosità e un po’ di sfrontatezza. E non meraviglia che per molto tempo tutto questo navigare sia stato associato a una certa idea di controcultura e giudicato da molti con superficiale altezzosità.
Pensavo a queste e ad altre cose simili oggi, di sabato pomeriggio sul divano di casa, mentre ero perso dentro il primo vero ipertesto cinematografico in larga scala, quello che Netflix ha offerto ai suoi clienti con l’episodio natalizio di Black Mirror intitolato Bandersnatch.
Un film a percorsi multipli nel quale sarà – anche lì – possibile perdersi, pur con alcune evidenti limitazioni. Paradossalmente la logica dell’ipertesto creato da Charlie Brooker ha più analogie con la Internet di oggi che con quella dei primordi.
La logica della struttura celata degli eventi, che richiama l’architettura di videogames come Monkey Island, si complica, in un film come Bandersnatch, soprattutto per il fattore temporale. Mentre il videogame deve durare, garantendo al giocatore esperienze varie e inattese, possibilmente per un periodo lungo, il film dovrà restare compresso in un tempo limitato e in un’unica fruizione. In altre parole il creatore di Bandersnatch detta i tempi e i modi nei quali lo spettatore sceglie il percorso della storia. E questo tono un po’ autoritario, che si percepisce chiaramente, è al contempo inevitabile, affascinante ma anche fastidioso.
Tutto questa pressione assomiglia non poco alla logica della Internet di oggi nella quale le piattaforme, forti del loro oligopolio, da un lato predicano apertura e serendipity e dall’altra condizionano sempre più pesantemente i percorsi per la propria clientela a colpi di algoritmo.
Seconda questione: le scelte che il film mi propone sono cieche. Io posso decidere di scegliere A o B ma non ho alcuna percezione di cosa significhi A e di cosa accada se scelgo B. La storia in altre parole mi porterà comunque dove vuole lei. Tutti gli ipertesti sono salti nel vuoto ma se clicco un link verso una pagina web che poi scopro di mio scarso gradimento potrò ritornare indietro in pochi istanti, su Bandersnatch questo non sarà possibile. L’ombra lunga del creatore veglia su di me e rende l’ipertesto fragile, lasciandomi l’illusione di aver guidato una macchina comandata altrove.
Prima di arrivare alla rapidissima conclusione sul cinema e sulle storie in genere che sono inadatte all’interazione occorrerà tempo e altri esperimenti. Forse scopriremo che in certi contesti sarà utile piegare la tecnologia alle scelte della clientela. Oppure prenderemo atto definitivamente che la poesia non prevede il parere di nessun altro oltre all’artista. Nel frattempo oggi, nell’euforia un po’ stupida di ogni novità, mi sono divertito. Anche se resta il dubbio freudiano fra seppellire pietosamente o tagliare a pezzi il corpo del padre.