Internet: coazione a ripetere
La notizia dell’oscuramento di butac.it in seguito ad una disposizione della Procura di Bologna sottolinea benissimo alcune cose che sapevamo già.
La prima, la più importante. Esiste un mondo là fuori del tutto insensibile ad ogni cambiamento. E in un Paese come l’Italia, nel quale il controllo sociale sui comportamenti e sulle responsabilità è quasi nullo ovunque, questo “sistema” imperversa. Solo così si spiega il sequestro di un intero sito web al posto dell’oscuramento di una singola pagina in seguito ad una querela per diffamazione. Una simile scelta è del tutto indipendente da quale sia il sito web interessato (un sito antibufale che nel caso specifico riveste un evidente ruolo educativo), dal contenuto dell’articolo (un pezzo francamente trascurabile, scritto male e magari – non ho idea – anche in qualche modo discutibile) e da chi sia il querelante (un medico chirurgo davvero sul filo – per non dire altro – della deontologia professionale, nei cui riguardi forse una valutazione dell’Ordine dei Medici non sarebbe del tutto fuori luogo). Nulla di tutto questo: in un Paese normale Internet è ormai considerata parte organica del mondo, da noi evidentemente no.
Da noi oscurare una pagina o un intero sito è, per molte persone e per qualche magistrato, più o meno la stessa cosa. Anzi, nelle decisioni grossolane come quella che riguarda butac.it aleggia oltre al profumo intensissimo della superficialità professionale anche un non detto altrettanto chiaro: che la comunicazione in rete fra cittadini sia un valore trascurabile. Del resto i magistrati leggeranno i giornali e sapranno quindi – almeno per sentito dire – che la rete è talmente piena di offese, stupidaggini, falsità (ma non solo, anche di misteriosi algoritmi, marchettari e spie russe) che trovare la maniera per spegnerne una piccola parte assumerà comunque una sua piccola valenza etica ed educativa. Un “ve la siete cercata” che nella vicenda di butac.it suona secondo me chiarissimo.
Il secondo aspetto interessante riguarda gli ambienti digitali e una domanda: come si reagisce agli insulti del potere? Se il magistrato non capisce (o abita in un altro mondo) come ci si deve comportare per opporsi civilmente? Linkando la cache di Google o la pagina su web archive nel quale l’articolo è stato salvato e dove è tutt’ora disponibile? Stigmatizzando chi sia il querelante o il nome del magistrato che ha firmato il provvedimento? Se la censura (perché di questo si tratta) riguarda un sito di debunking potremo trattare una simile decisione come una normale procedura fra gente che si offende online e non invece come una lesione dei nostri diritti informativi?
In altre parole se il potere è stupido e pericoloso, se invece che tutelare i cittadini li mette in pericolo, cosa può fare ciascuno di noi dentro questi riprovevoli ambienti digitali per indurlo a cambiare? Secondo me l’unica cosa che possiamo fare è parlarne e riparlarne. Dire e ridire che un medico olistico (qualsiasi cosa significhi) ha querelato un sito web con un importante valore informativo e che un giudice ha utilizzato il suo potere per chiuderlo d’autorità, come se gli ultimi vent’anni non fossero passati. E che lo ha fatto incurante delle tecnologie (che consentono oggi in molte maniere di oscurare selettivamente una pagina web su un server italiano), del buonsenso, della giurisprudenza, di tutti noi e dei nostri diritti.
Sapendo bene che domani da questa decisione non discenderà alcuna conseguenza per lui se non qualche modesto articolo di giornale di cui tutti si dimenticheranno in fretta.
Poi dopodomani riaccadrà la medesima cosa, con altri querelanti, altri imputati e altri giudici poco avvezzi alle dinamiche di quella cosa là, piena di deficienti, che si chiama Internet.
Nella giostra senza fine di un Paese comunque incapace di salvarsi da sé stesso.