Cappuccetto Facebook
Dice Mark Zuckerberg che ora la priorità di Facebook è fare qualcosa per il benessere delle persone. E che per fare questo intende allontanare i mercanti dal tempio e riprogrammare i flussi del suo newsfeed dando maggior evidenza alle relazioni personali. I commenti dei nostri amici saranno da domani maggiormente visibili rispetto alla marea di altre pagine che l’algoritmo di Mark sforna per noi quotidianamente.
Le parole del fondatore di Facebook andranno prese con cautela, magari ricordando che per anni Zuckerberg ha urlato ai quattro venti, contro ogni ragionevole evidenza, che la sua piattaforma non era una media company. I suoi ingegneri tramavano per rendere Facebook il più vasto news outlet del pianeta e lui andava in giro a ripetere che si trattava d’altro. Quindi cautela. Ma a parte questo non ci sono grandi dubbi che una decisione del genere, se presa per davvero, rappresenti due cose assieme. Una scelta inevitabile e sacrosanta nel tentativo di restituire ai propri utenti un minimo di comfort intellettuale, e un’opzione controintuitiva nella logica economica della piattaforma.
Mentre Facebook annuncia di voler fare marcia indietro, ritrasformandosi nel social network che era agli esordi, abbandonando il suk di balle e suggerimenti che è diventato attualmente, un paio di cose andranno sottolineate.
La prima è che Facebook ha avuto in questi anni un ruolo cardine nello scadimento della qualità informativa in rete. Ciò è avvenuto per molti motivi fra loro correlati. Perché è diventata una comunità vastissima (oltre due miliardi di utenti) ampiamente condizionabile; perché fra i vari modelli di business ha immaginato un proprio ruolo di “edicola informativa planetaria”; perché la natura stessa della piattaforma ha scremato le informazioni secondo criteri “innovativi” rispetto a quelli usuali della notiziabilità giornalistica. Perché gli editori stessi, invogliati dai flussi giganteschi di click che Facebook indirizzava verso di loro, hanno scelto spesso di adattare la propria offerta, prima sulle proprie pagine FB e poi sui propri siti editoriali, ai nuovi criteri di visibilità informativa imposti dalla piattaforma. Una sorta di dittatura del cretinismo indotta dall’algoritmo e poi rapidamente diffusasi nell’aere intorno.
La seconda ragione, il motivo per cui l’annuncio di Zuckerberg è molto probabilmente poco più di una boutade, è che i social network, quelli veri, in genere non guadagnano soldi. Le relazioni fra le persone non spostano denaro. Le foto di mia zia in vacanza alle Maldive non creano un modello di business. E nemmeno la profilazione delle mie abitudini ad osservare le foto di mia zia alle Maldive creano dati troppo significativi per aziende che desiderino acquistarli.
Ora ovviamente Facebook è forse l’unica azienda tecnologica al mondo che possa considerare una parziale inversione di rotta rispetto al modello che lei stessa ha creato e affinato negli anni. Pagare un prezzo perché ci si è spinti troppo in là: di questo in effetti oggi si sta parlando, di una modifica piccola che non scontenti troppo gli azionisti.
Annunciare i propri piani per il benessere dei propri clienti rimane invece pura millanteria californiana. E pazienza se di questo giro di vite verso un ambiente maggiormente healthy i primi che subiranno il colpo saranno gli editori, i quali del resto troppo spesso in questi anni, con il loro cesto di vimini in mano, hanno ignorato le fauci del lupo sotto il fazzoletto della nonnina.