La verità su Internet
La discussione sul ruolo dei social network nell’elezione di Donald Trump interessa il giornalismo, le piattaforme tecnologiche, gli algoritmi, il marketing politico, ma prima di tutto dovrebbe riguardare noi stessi alle prese con Internet. Per questo è una discussione che ci interessa fare ed è anche, contemporaneamente, una discussione che abbiamo già fatto mille volte.
Alcuni dei temi in campo riguardano l’architettura di Facebook, la politica ridotta a semplice contrapposizione ideologica, l’influenza delle élite tecnologiche sui cittadini e sulle loro convinzioni. Vale in USA ma interessa anche il nostro Paese dove la politica già da tempo ha sposato, quando non anticipato, lo schema della “post truth democracy”. Una democrazia curiosa e formale, che ci sostanzia nelle sole parole, che si esercita in contenuti sempre più aggressivi e che usa come linguaggio quello sintetico e ripetitivo della viralità del web. Un luogo nel quale algoritmi nati per venderci set di pentole sono stati rapidamente adattati al progetto di propagandare idee e punti di vista.
Il risultato grezzo di molte delle congetture in campo è semplice: è stata colpa di Internet. L’eterogenesi dei fini di una piattaforma planetaria che si immaginava come “tecnologica” e che serviva a connettere le persone che invece, nel giro di poco, si è trasformata in un oggetto di circuizione potentissimo e avvolgente, la sede privilegiata nella quale oggi esercitare più che il pluralismo informativo soprattutto le sue inevitabili degenerazioni.
Dicevo che si tratta di una discussione vecchia e lo è. Perché, come avvenuto in molte discussioni analoghe del passato, invece che parlare di noi anche oggi preferiamo occuparci di quanto ci capita attorno. Gli elettori di Trump hanno votato Trump perché irretiti dai contenuti del loro newsfeed su Facebook? Oppure perché i grandi autorevoli giornali hanno perso centralità ovunque? O forse perché le élite della Silicon Valley – come scrive Noam Cohen sul New York Times – sono del tutto sconnesse dal sentire medio dei cittadini che utilizzano i loro prodotti e ne hanno semplicemente ignorato esigenze e attenzioni?
Se un giorno, come sta già precipitosamente avvenendo, Facebook e Twitter scegliessero di orientare gli obici dei loro algoritmi dalle parti della “verità” piantandola di scrivere tristissimo codice per il mercato delle pentole, qualcuno crede che questa nuova operazione – prima ancora di essere tecnicamente possibile – cambierebbe qualcosa?
La società post-verità, definizione affascinante e lievemente millenaristica, non è un portato della tecnologia, come in molti stanno raccontando. Esattamente come le espressioni d’odio o la pedofilia o il bullismo non sono fenomeni nati sotto il cavolo della rete delle reti. Molti elementi giocano un ruolo nella crescita esponenziale dei nostri tumulti sentimentali (fino ad arrivare alla ferale elezione a presidente degli Stati Uniti di un miliardario che ama circondarsi di suppellettili dorate) ma nella società post-verità (che forse viene immediatamente dopo quella della finta-verità) l’unico dato che mi parrebbe certo è – di nuovo – che il problema siamo noi, non l’orchestrina che ci suona attorno.
Siamo noi che crediamo alle bufale su Facebook o leggiamo solo i titoli dei giornali, noi che clicchiamo su link per deficienti o che ci fidiamo del primo sconsiderato che vediamo citato in giro. Noi che ci accontentiamo del poco quando avremmo per la prima volta accesso al moltissimo. Noi che, insomma, siamo pigri, superficiali, disinteressati e un po’ stupidi. Più o meno uguali a come siamo sempre stati. E dentro quella piccola variabile risiede forse l’unico margine di riscatto che ci resta.
Tutto si tiene, tutto va benissimo, a patto di non dover parlare di noi stessi. Se un giorno per sbaglio iniziassimo a farlo seriamente dovremmo dirci che se il nostro corredo cognitivo è sempre il medesimo, gli strumenti che oggi lo circondano sono cambiati. Alcuni sostengono che proprio lì sia il problema: in un’infrastruttura pensata per esaltare superficialità e incompetenza. Non hanno torto.
Altri diranno che, al contrario, il contesto digitale ha aperto nuove possibilità e ridiscusso vecchi imbarazzanti privilegi. Nemmeno loro hanno torto.
Così forse potremmo considerare la società post-verità come un momento di passaggio. La necessità, in qualche caso l’urgenza, di iniziare a fare davvero i conti con noi stessi. Il cuore digitale della trasformazione è quello sul quale state leggendo queste parole. Quello stesso luogo sarà il confortevole capro espiatorio se non saremo abbastanza bravi da lasciare ai nostri figli una società migliore di quella che abbiamo conosciuto.