Il guaio di essere Facebook
I Termini di Servizio (di Facebook, di Google, di Apple ecc), TOS per gli amici, sono oggetti intellettuali indispensabili, lunghi da leggere e in genere molto noiosi. Infatti una volta compilati non se li fila nessuno, tranne gli avvocati o gli attivisti quando cercano qualche piccolo buco di senso nel quale intrufolarsi. Sono oggetti importanti per due ragioni principali. La prima è una ragione giuridico-contrattuale: in quel testo vengono chiariti i rapporti di forza fra l’utente e il proprietario della piattaforma, fondamentalmente “chi ha diritto di fare cosa”. La seconda ragione, che nessuno considera mai, è che i TOS sono il residuo contemporaneo delle vecchie policy, originaria forma di autoregolamentazione dei contenuti in rete.
Questo aspetto precede Facebook, precede perfino le preoccupazioni giuridiche di chi si trova ad offrire piattaforme di contenuti su Internet, e rimanda ai tempi in cui
1) non esistevano piattaforme commerciali in rete
2) I rapporti di forza su Internet erano regolati da convenzioni concordate fra gli utenti
La discussione che ha investito Facebook negli ultimi giorni per il caso della famosissima foto della bimba in Vietnam cancellata in Norvegia, ma che si ripresenta continuamente da tempo pur se in forme meno eclatanti, riguarda questa seconda valenza dei TOS di Facebook: vale a dire cosa la piattaforma possa censurare oppure no in base al barboso documento iniziale che ci ha costretto a firmare.
Se Mark Zuckerberg avesse ragione, se, come va ripetendo da tempo, Facebook non fosse una media company ma semplicemente una tech company (la discussione è oziosa e insensata perché i due termini sono oggi spesso sinonimi, ma lasciamo stare) allora, esattamente come accadeva con gli strumenti dei primordi della rete Internet, la piattaforma non dovrebbe occuparsi dei contenuti, lasciando che ciascuno posti quello che gli pare e ne patisca le eventuali conseguenze. Zuck dovrebbe in altri termini lasciare tutto in mano ai suoi utenti, ai meccanismi di autoregolamentazione che gestivano Internet prima di lui. A questo riguardo non è un caso che i criteri censori di Facebook siano pomposamente definiti “gli standard della comunità FB” come se fossero gli utenti e non la società a definirne i criteri.
Una simile gestione periferica dei contenuti è evidentemente impossibile per molte ragioni: di dimensioni (1.7 miliardi di utenti), di pervasività della piattaforma, di indubbio potere mediatico (il 66% degli americani raggiunge le notizie da quelle parti) e anche perché la piattaforma non è costruita intorno alle esigenze dei suoi utenti ma partendo da criteri differenti. I meccanismi di segnalazione previsti sono ambivalenti: da un lato aiutano la selezione centrale dei contenuti inadeguati e dall’altro producono danni vistosi in relazione a meccanismi delatori di utenti verso altri utenti.
La debolezza di Facebook è tutta qui, nella sua impossibilità di essere piattaforma e nella necessità di decidere caso per caso cosa sia pubblicabile e cosa no. I problemi sono diventati grandi insieme a Facebook (la propaganda ISIS è solo uno dei maggiori temi ai quali dedicarsi), la necessità di affidarsi ad algoritmi che gestiscano l’enorme flusso di dati rinfocola ormai quotidianamente le polemiche sulla loro formidabile stupidità, ma chiarisce anche l’assenza di concrete alternative, soprattutto Facebook spiega a chi lo sa osservare la propria assoluta impossibilità di “essere Internet”.
Qualsiasi esperimento che preveda standard etici generali per tutto il pianeta NON può essere Internet. È anzi l’esatto opposto di Internet: la massificazione ideologica contro il libero pensiero, le categorie usuali contro l’imprevedibile divagazione intellettuale.
I meccanismi censori che Facebook utilizza sulla sua piattaforma sono un residuo della Internet precedente e non sono il diavolo: funzionano egregiamente dentro piccole comunità aperte verso l’esterno. Sarebbe sciocco applicar loro i criteri che le democrazie occidentali applicano ai regimi (uno degli errori usuali che i media compiono quando ne parlano). Diventano invece impossibili da gestire se si ha la pretesa di applicarli su larghissima scala.
Se l’algoritmo stupido di Facebook (o anche uno dei rari controllori in carne ed ossa che vagliano in un secondo tempo le segnalazioni) ritengono che L’Origine del Mondo di Courbet o la foto di Kim Phúc violino gli standard etici della società (sorvoliamo sull’essenza calvinista di simili standard) io trovo normale che vengano cancellati. Su Internet un tempo funzionava così. Ma su quella Internet Facebook era solo una microscopica isoletta gestita da qualcuno ossessionato dal nudo femminile di una donna che allatta. In quella Internet Courbet o la ragazzina nuda in Vietnam erano comunque disponibili ad un passo di distanza, in mille altre forme e con ogni possibile differente commento. A quelle condizioni Facebook era piattaforma e non editore.
Quelle condizioni oggi non esistono più e questa è la ragione per cui oggi Facebook , magari senza volerlo, è non solo un editore in grado di orientare milioni di persone su tutto il pianeta ma è anche un pericolo concreto per Internet e, di conseguenza, per tutti noi.