Da hacker a troll: il senso delle parole in rete
Qualche giorno fa perfino il mio amato Guardian ha pubblicato un articolo utilizzando, fin dal titolo, il termine troll in maniera totalmente distorta. Si riferiva, il quotidiano britannico, ad un cosiddetto hater (purtroppo la traduzione italiana “odiatore” è ridicola assai) perché evidentemente, fino ad oggi almeno, nessun troll di quelli veri è mai andato in galera. Né avrebbe potuto, almeno se seguiamo la definizione di troll che ci offre wikipedia:
Un troll, nel gergo di internet e in particolare delle comunità virtuali, è un soggetto che interagisce con gli altri tramite messaggi provocatori, irritanti, fuori tema o semplicemente senza senso, con l’obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi
Quel titolo del Guardian e più ancora la copertina e il pezzo principale del numero di Time in edicola in questi giorni hanno ulteriormente spinto verso questa nuova definizione. I nuovi troll sono quelli che odiano in rete, i cyberbulli, i molestatori seriali, i diffamatori, gli stalker.
Così una risposta che potremmo dare all’articolo di Joel Stein, nel quale la domanda fin dalla copertina è: “Perché stiamo perdendo Internet a favore di una cultura dell’odio” potrebbe essere che la prima cosa che sta scomparendo è proprio la cultura di Internet, quella capacità anche terminologica di descrivere nuovi contesti digitali attraverso termini o motteggi (“don’t feed the troll” per esempio) che semplicemente prima non esistevano.
Le nuove scorciatoie dei media sul vocabolario digitale, l’utilizzo esteso di simili termini per descrivere qualcosa d’altro, è interessante anche per questa ragione: chi ne scrive, interrogandosi su che fine stia facendo Internet, non sembra troppo interessato alla cultura digitale ma solo alla propria versione digitale di cultura, un nuovo formato del mondo costruito attraverso punti di riferimento che si conoscono bene.
Molti anni fa i puristi di Internet combatterono una battaglia analoga che riguardava l’utilizzo del termine “hacker”. Il processo di scivolamento semantico è stato analogo e da un certo punto di vista ineluttabile e senza ritorno. Ogni volta che un sito web veniva violato, per ogni furto di identità occorso in rete, secondo i media i colpevoli erano sempre i temibili “hacker”. Per anni una comunità sparuta ed entusiasta di internettiani della prima ora ha provato a educare i media, a spiegar loro che quella parola era sbagliata, che il termine giusto da utilizzare in simili contesti non era “hacker” (termine che descrive una cultura, l’etica hacker appunto, incompatibile con simili comportamenti) ma “cracker”. Per molti anni i media, per pigrizia o incompetenza, hanno continuato a scrivere “hacker” fino a quando il senso della parola precedente è scomparso dal vocabolario condiviso, sostituito dal suo nuovo significato.
La parola troll è oggi dentro la medesima traiettoria: grossolanamente distorta per ragioni di sintesi giornalistica (o semplicemente perché suona bene) sta diventando sinonimo di ogni comportamento patologico in rete. Il suo sempre più vasto utilizzo, esattamente come accadeva anni fa per la parola hacker, da un lato continua a raccontare molto della mediocrità di chi la utilizza, dall’altro si iscrive all’interno di un cambiamento di significato che semplicemente ne definisce nuovi confini.
Lo schiacciasassi del senso comune passa sopra a parole di grande significato e con proprie specifiche peculiarità, ne banalizza il significato quando non lo stravolge completamente. Mentre ciò accade questa sostituzione lascia dietro di sé un vuoto che sembra difficile riempire. L’etica hacker esiste, i troll, nella loro fastidiosa impudenza esistono (io per esempio sul mio blog ci convivo più o meno amorevolmente da 15 anni), ma non sono ciò a cui la grande divulgazione si riferisce oggi.
Infine, ironia della sorte, il lungo articolo di Time sui troll che non sono i veri troll è non solo un articolo modesto e pretenzioso, come tutti quelli in cui da singoli episodi occorsi in rete (o peggio dalle evenienze accadute a qualche star dei media) si prova ad estrarre una tendenza che descriva la Internet intera, ma è esso stesso, fin dall’inizio, una trollata intenzionale. Per la quale, fortunatamente, l’editore del settimanale americano – come i veri vecchi troll – non finirà in galera.