Dobbiamo chiudere gli occhi?
Nel mondo in cui tutto ormai è informazione (tanto che perfino la definizione “società dell’informazione” è ormai vecchia di oltre 40 anni) si moltiplicano gli inviti a ridurre l’informazione. La notizia di oggi è che alcuni media francesi smetteranno di pubblicare le foto e i nomi degli attentatori nella convinzione che simili informazioni possano favorire fenomeni di proselitismo. Qualche giorno fa è stata la polizia tedesca a invitare i cittadini a non condividere immagini o informazioni sull’attentato che era in corso a Monaco. Curiosamente per farlo ha utilizzato Twitter.
Molte polemiche hanno poi riguardato – giusto pochi giorni prima – l’opportunità di pubblicare le immagini terribili della strage di Nizza. Come se una simile scelta non fosse una scelta deontologica che ciascun professionista fa per sé ma debba essere condivisa da tutti. Da un lato i sostenitori del dovere di cronaca (e insieme a loro i peggiori di noi, i cinici e le iene dell’informazione) dall’altro quelli concentrati ad evitare ogni forma di intelligenza col nemico.
Anche in altre evenienze drammatiche degli ultimi mesi (un caso per tutti di cui si è discusso moltissimo è quello della foto del piccolo migrante morto annegato sulla spiaggia di Bodrum) il tema sembra essere sempre lo stesso: come comportarsi? Come utilizzare l’informazione per migliorare il mondo? Come maneggiarla per non creare danni?
Il discorso si applica anche a più miserevoli vicende nostrane: per esempio all’abitudine recente ma ormai consolidata di alcuni quotidiani italiani di utilizzare la prima pagina del proprio foglio per titoli provocatori e spesso offensivi. Che cosa dovremmo fare noi che li incrociamo in questi casi? Indignarci ripubblicando su Twitter i titoli vergognosi di Libero (a me capita di farlo) o ignorarli per depotenziarne gli intenti?
Già da molti mesi le piattaforme sociali come Twitter e Facebook hanno iniziato una battaglia tecnologica molto ampia contro la propaganda dell’ISIS: hanno scelto – forse senza grandi alternative – di applicare un’eccezione editoriale a contenuti ritenuti pericolosi. E lo hanno fatto estesamente e silenziosamente, con la complicità ed il plauso dei governi occidentali.
Così con le decapitazioni dei macellai dell’ISIS nel deserto sono scomparse dai social media anche molte immagini dei bombardamenti russi o americani in Siria e con loro dio sa quali altre immagini e testimonianze che le grandi piattaforme web hanno deciso unilateralmente di considerare non adeguate alla nostra visione. Mark Zuckerberg come il buon padre di tutti noi suoi attempati figlioletti? Del resto è difficile capire quali siano le differenza – visto che non sono esplicite, ancora una volta per non dare spunti sul loro aggiramento – fra le censure di Twitter, Youtube o Facebook e quelle di un qualsiasi regime che chiuda e apra Internet a proprio piacimento.
Così la società dell’informazione – quella messa in piedi dai “buoni”, molti dei quali se ne stanno in USA dietro il loro confortevole Primo Emendamento – sempre più spesso si ritrova a condividere l’idea che meno informazione sia, se non una buona idea, almeno un percorso necessario. E questa idea sembra oggi a tutti noi sempre più adeguata e ragionevole, che i tempi sono bui e le minacce terribili.
E così proseguendo è diventato difficilissimo trovare qualcuno disposto a ripetere l’ovvio. E cioè che una società con meno informazione è esattamente quello che i cattivi vogliono. E che noi ci stiamo piano piano adeguando. Abbiamo paura, facciamo sì con la testa e chiudiamo gli occhi. Dovremmo tenere gli occhi aperti e invece – per il bene di tutti e per opporci alle minacce incombenti – decidiamo di chiuderli.