Morte alla cronologia!
Sai che c’è? C’è che Internet è cambiata. Sotto le nostre dita, in pochi anni, è diventata qualcosa d’altro e noi ora fatichiamo a rassegnarci. Ci piaceva più prima, ovviamente, ci sembrava funzionasse meglio. Quando sentirete qualcuno lamentarsi della china che ha preso Twitter, delle strane incongruenze di Facebook o del nuovo ordine non cronologico delle foto su Instagram, ciò che sta succedendo è che qualcuno di quelli che c’erano prima si sta lamentando di come vanno le cose adesso. Che abbia torto o ragione è del tutto ininfluente. Almeno per voi, che non avete nemmeno idea di cosa diavolo si stia parlando.
Questa settimana su Instagram sono successe due cose: la prima è che Papa Francesco ha aperto finalmente il suo profilo ufficiale (non chiedetemi a cosa serva un profilo Instagram del Pontefice, non ne ho idea), la seconda è che Instagram ha annunciato che abbandonerà l’ordine cronologico delle foto, preferendo un diverso metodo di presentazione basato su altri criteri.
Qualcosa di simile – con grandi polemiche, urla, hashtag e strepiti di disapprovazione – è accaduto qualche settimana fa su Twitter. Anche Twitter ha annunciato l’intenzione di offrire alla propria clientela alternative all’ordine temporale dei tweet, scommettendo sulla propria capacità di interpretare al meglio i nostri gusti, gestendo le nostre pause e i nostri interessi.
Facebook stessa ha sposato da tempo l’idea di mostrare i contenuti dei nostri “amici” in un ordine personalizzato affidato ad un algoritmo, non prima di aver, pazientemente e per gradi, smantellato di fatto la struttura originaria della piattaforma, quella che prevedeva che i nostri contenuti su Facebook fossero condivisi solo con una ristretta cerchia di persone. Oggi Facebook è diventata una piattaforma prevalentemente aperta dentro la quale nascondersi è più faticoso che mostrarsi. Questa trasformazione è avvenuta senza colpo ferire, utilizzando l’arma di orientamento delle masse più efficiente fra quelle disponibili nei regimi informatici: la dittatura del default (la tendenza della maggioranza degli utenti a non intervenire sui settaggi di base).
Internet è cambiata: l’ordine cronologico che oggi tutti osteggiano era buono e giusto per utenti avanzati che avevano molto tempo da dedicare ai social network; si presta molto meno se gli scopi sono altri. Quello predominante per le piattaforme di rete sociale oggi è orientare in maniera più o meno sotterranea la discussione pubblica. Nessun Dorsey o nessun Zuckerberg sarà disposto ad ammetterlo pubblicamente, vi diranno anzi che l’algoritmo è buono per definizione, perché studiato per farci risparmiare tempo e ritrovare al volo i contenuti che ci interessano, le foto che ci piacciono, i video che davvero ci fanno ridere. Si tratta di una mezza verità, lì accanto esiste anche un’altra realtà tecnologicamente meno affascinante: l’algoritmo che sceglie cosa vedremo per primo domani su Twitter, su Facebook o su Instagram è un espediente di controllo che noi saremo disposti a sposare con la usuale leggerezza. Al suo interno, dentro i misteriosi linguaggi del codice, conterrà indicazioni a noi ignote (ma note alla piattaforma o ai suoi clienti) su cosa mostrarci e cosa no. Ogni tipo di infatuazione, sia quella per la marca delle nostre prossime scarpe da ginnastica che quella per il partito politico da votare alla prossima tornata elettorale, potrà essere ospitata dentro un simile telecomando.
Gli utenti scapigliati della Internet del secolo scorso si trovavano gli amici e desideravano parlare solo con loro, sceglievano da soli quali notizie leggere, a quali discussioni partecipare, quali foto guardare, quali imbecilli ignorare. Lo facevano per mancanza di alternative che non fossero il passaparola o i complicati feed RSS, e già questo approccio olistico ad un mondo gigantesco comportava una serie di problemi sociologici rilevanti: la prima filter bubble non è quella dettata dall’algoritmo di Google o Amazon ma quella che risiede da sempre nelle nostre teste e che ci consiglia di circondarci di gente simile a noi. A quei tempi si trattava, tutto sommato, di una bolla piuttosto piccola: poco più in là c’era la rete gigantesca e inesplorata, piena di insidie e sorprese, potenzialmente in grado di mettere in dubbio ogni nostro bias di conferma. Quello che avevamo in mano era un gigantesco spillone con il quale perforare la bolla dei nostri limiti per offrirci finalmente alla complessità del mondo.
Così non è stato, quasi mai la bolla è stata fatta scoppiare ed anzi ne sono nate altre sempre più impenetrabili ed in conto terzi. A differenza di quella iniziale, figlia esclusiva delle nostre umane debolezze, le bolle che oggi le piattaforme di rete sociale scrivono per noi tolgono le pile al nostro telecomando Internet: selezionano contenuti evidenziandone alcuni ed ignorandone altri, suggeriscono amicizie e idee, ammettono profili e ne cassano altri, incidono potenzialmente anche sui nostri stati d’animo mediante la semplice imposizione di una timeline al posto di un’altra. E tutto questo a noi sembrerà normale se il tecnologo di turno ci spiegherà che ciò è studiato nel nostro unico interesse, per farci risparmiare tempo e vivere meglio.
L’ordine cronologico era un impiccio che andava rimosso. Piano piano se ne stanno occupando un po’ tutti.