Twitter e il romanticismo
Se c’è un errore che possiamo fare nel commentare la notizia, ormai quasi certa, della prossima estensione della lunghezza dei tweet oltre i 140 caratteri è di trasformarla in una faccenda romantica.
Voglio dire, io sarei il primo a volerlo fare, visto che Twitter è forse la piattaforma alla quale sono maggiormente affezionato, ma spiegare agli altri perché il Twitter che amiamo sarebbe offeso e distrutto dalla scomparsa del limite dei 140 caratteri non servirà a molto se non a sfogare la nostra personale frustrazione.
Del resto la situazione attuale dell’azienda non ha molto di romantico. La società, che è quotata in Borsa ed ha un bel numero di azionisti insoddisfatti da tenere a freno, ha smesso di macinare utenti, ha tempi di permanenza molto bassi, ha perso moltissimo appeal fra gli utenti comuni e non è riuscita ad immaginare un modello di business che le consenta di uscire dal ricatto di aumentare di continuo il numero di profili creati. È però ormai un’azienda grande, con problemi grandi e senza le pause di rivoluzione che è possibile concedere alle startup.
Insomma a Twitter i giochi sono fatti, non possono rimanere così e sono anzi costretti a cambiare in fretta. Glielo chiedono, sempre più insistentemente, quelli che hanno investito denaro nella baracca e che ora ne stanno perdendo e rischiano di perderne sempre di più. Nessuno di costoro – sarei pronto a scommetterci – è un romantico dei primi tempi, quando nel 2007 su Twitter ci scrivevamo messaggi personali usando la terza persona singolare.
Una maniera per provare a mantenere gli utenti dentro il proprio giardinetto è quello di aumentare lo spazio a loro disposizione. I tweet sono – romanticamente, lo si ripete sempre – sintesi fulminanti di una opinione o fotografie testuali di un evento: tuttavia vi basterà scorrere la vostra timeline per rendervi conto che in moltissimi casi non sono solo questo. Un numero molto rilevanti di tweet fra quelli che leggiamo ogni giorno sono semplici annunci: un titolo ed un link. Brevi messaggi senza pretese che prendono le persone e le sparano altrove. Nella logica elementare delle società quotate (e di molta imprenditoria web che è nata e prosperata sul cinismo applicato al formato digitale) non esiste nulla di peggio. Specie quando le cose vanno male.
Quindi Twitter è condannato a cambiare. Spazi per iniziative funamboliche che conservino la capra di noi romantici e i cavoli dell’azionista non sembrano esserne rimasti molti. Pensare di assomigliare a Facebook o a Medium (post lunghi, assenza della cronologia ecc) parrebbe in ogni caso un’idea tardiva e disperata. Del resto se la situazione di Twitter non fosse molto difficile Jack Dorsey avrebbe forse evitato di comunicare il proprio pensiero al riguardo con un lungo testo dentro una immagine allegata a un tweet.
La realtà, che vale per Twitter e per molte altre geniali realtà del web affondate nell’ultimo decennio, sembra essere piuttosto brutale: radunare milioni di persone attorno ad idee originali e geniali è molto complicato; farle sopravvivere alla quotazione azionaria è quasi sempre una scommessa impossibile. Gli utenti sono volubili e forse superficiali ma non sono stupidi e la Borsa nemmeno. Semplicemente parlano linguaggi del tutto differenti.
Non è la morte di nessuno. Di sicuro la lezione che potremmo imparare, almeno noi che ne siamo una parte piccolissima e statisticamente trascurabile, è che la nostra Internet è fatta di piattaforme condivise e intelligenti. E che per rimanere tali simili ambienti forse devono rimanere piccoli, oppure navigare abbastanza lontane dal canto delle sirene. O in alternativa, come accade spesso, continuare a incassare i soldi dei gonzi, fare le valigie e trasferirsi altrove. Spezzando il cuore di noi romantici e rovinando il portafoglio di un po’ di risparmiatori.