Ehi Twitter, chi aiutiamo oggi?
Diciamo la verità: noi non siamo cambiati. Internet non ha modificato la nostra attitudine ad avere un’opinione su tutte le cose del mondo. Probabilmente ha aumentato il numero di argomenti dei quali siamo sommariamente informati e questo magari conta. Sempre che le notizie ci interessino, il che non è obbligatorio.
Avere un’opinione è spesso inevitabile, il nostro cervello tende a farlo, prendere posizione fa parte del suo mestiere; comunicare l’opinione che ci siamo fatti agli altri lo è invece molto meno, ma di nuovo, mediamente, quello che facciamo oggi in rete lo facevamo anche prima in maniera simile. Siamo animali sociali, comunicare fa parte del nostro modo di modellare la conoscenza.
Un passo dopo l’altro arrivo al punto: esprimere la propria opinione su Internet, magari molte volte al giorno su Twitter, magari con toni non esattamente eleganti crea a noi e agli altri più problemi di quanti non ne risolva? Perché questa è la questione, conta la somma finale a pié di pagina: il bilancio intellettuale complessivo e aritmetico di tutto questo esprimersi è positivo o negativo? Socializzare ad alto volume in mondovisione fra grandi intuizioni e ciclopiche stupidaggini aggiunge o toglie intelligenza alla nostra vita?
Un errore che possiamo fare – su Internet capita di frequente – è osservare singoli frammenti. Per esempio Francesco Costa qualche giorno fa, con il talento che gli è solito, ne ha osservato accuratamente uno piccolissimo in un post che si intitola “Ehi Twitter, chi massacriamo oggi?”. La storia è quella di ISBN, casa editrice in crisi il cui direttore è stato violentemente attaccato in questi giorni sui social network da collaboratori che non sono stati pagati e da altri che passavano di lì. Costa nota che l’attacco (il linciaggio lo chiama lui con un po’ di enfasi) è in gran parte opera di persone che non sono parte in causa e scrive che lo schema è tristemente noto:
un tweet su una questione controversa,una battuta infelice o un ruolo in una storia complicata generano una montagna di messaggi disinformati, aggressivi, offensivi, brutali, a volte apertamente intimidatori. Per chi lo scrive è un messaggio scritto senza pensarci troppo, in cinque secondi, che sarà mai, oppure un modo per sfogarsi livorosamente durante una giornata faticosa; per chi li legge sono centinaia di cose violente e personali da leggere una dopo l’altra, per ore o per giorni.
Sottoscrivo. Il pensiero di Francesco è anche il mio: chiunque di noi abbia una anche minima visibilità in rete in situazioni del genere prima o poi ci si è trovato. Sottoscrivo doppiamente perché a volte mi sono trovato anche nella posizione opposta, quella dell’aggressore (Costa lo chiamerebbe il carnefice) e anche quella, se hai un po’ di amor proprio, una volta che te ne sei accorto, non è una bella sensazione. Ma non vorrei parlare di ISBN o dell’attacco quasi automatico che alcune piattaforme di rete favoriscono (Twitter in questo, per velocità e sintesi è davvero terribile), mi piacerebbe tornare ad un contesto più ampio, ignorando l’episodio singolo e osservando la macchina digitale nel suo complesso.
E rimanendo a Twitter forse varrà la pena osservare che nella mia timeline accanto ai tweet su ISBN ve ne sono anche molti altri di segno opposto. Ne cito solo alcuni presi a caso in questo momento: la smentita di Civati ad un titolo di Repubblica che lo riguarda e la solidarietà di molti, la foto degli adolescenti down offesi in Veneto da impiegati delle Ferrovie e condivisa ovunque, la storia falsa della rissa scolastica fra adolescenti che non era uno scontro confessionale ma forse semplice razzismo.
Si intravede in tutto questo agitarsi ed indignarsi un intento ammirevole e da sempre molto diffuso in rete, quello di dare dignità e valore alle notizie, di fare la propria parte per la diffusione della buona informazione, un desiderio di empatia e solidarietà che sono (anch’essi) tratti fondanti della comunicazione di rete da sempre. Proviamo ad utilizzare la frase di Costa riferendoci a questo:
un tweet su una questione importante, una frase o il racconto di una storia complicata generano una montagna di messaggi solidali, empatici, di vicinanza e condivisione, a volte francamente commoventi. Per chi lo scrive è un messaggio scritto senza pensarci troppo, in cinque secondi, che sarà mai, un modo per dare un piccolo supporto durante una giornata faticosa; per chi li legge sono centinaia di cose commoventi e personali da leggere una dopo l’altra, per ore o per giorni.
Io non so se i facinorosi disposti a sposare al volo e con durezza la causa digitale contro l’editore che non paga siano gli stessi che condividono su Facebook la foto dei ragazzi down offesi, forse no. Ma terrei d’occhio comunque il contesto generale perché generalizzare i singoli frammenti della nostra esperienza di rete è una scorciatoia molto comoda, utilizzata molto spesso da quelli che, per ragioni loro, detestano Internet. In ogni caso mi pare ovvio che – al netto della nostra capacità di temperare gli animi ed allontanare da noi gli imbecilli – la comunicazione in rete comprende sempre entrambi gli estremi.
Poi alla fine non lo so, non so quale sia il bilancio matematico dei più e dei meno nelle conversazioni di rete, dei “vaffanculo” da una parte e dei “tisonovicino” dal’altra.
Anzi, per quanto mi riguarda lo so, ma non vorrei fare l’errore che ho già fatto così tante volte di osservare il mio piccolo spicchio di rete scambiandolo per il tutto. Quello che so è che i miei buoni sentimenti dureranno per sempre, la mia stupidità ha invece ancora qualche margine per essere ridotta.