Apple scende in campo
Le aziende sono in genere soggetti socialmente deboli. Quelle grandi lo sono di più di quelle piccole. Allo stesso tempo oggi le grandi aziende comunicato in modo autonomo e spesso molto potente. La loro audience, i loro “lettori”, sono la loro clientela ma non solo.
Se tutto questo è vero allora l’articolo di Tim Cook sul Washington Post che inserisce Apple dentro la scacchiera della discussione politica americana è una scelta tanto forte quanto inconsueta. Non solo per la debolezza intrinseca su diritti e libertà di una grande società che, per quanto attenta, costruisce comunque, come molte altre e per necessità di mercato, i suoi prodotti in Estremo Oriente (una debolezza che domani farà alzare il sopracciglio del “senti chi parla” a tanti cavalieri senza macchia), ma anche per una generale incertezza e disabitudine che si scatena ogni qualvolta il soggetto che parla è così vagamente definito nelle sue connotazioni sociali. Per chi parla Tim Cook quando dice “noi di Apple”: lo fa in nome dei suoi clienti, in nome dei suoi molti dipendenti, del gruppo dirigente oggi a capo dell’azienda di Cupertino?
Non è chiaro. E se da un lato una simile presa di posizione (che ne segue una analoga, passata più sotto silenzio ma altrettanto energica qualche mese fa sui rapporti fra Apple, clientela e privacy e che viene dopo il coming out di Cook sulla sua omosessualità) sarebbe forse stata improbabile nell’era Jobs, da un altro a me pare inevitabile che un’azienda moderna, con milioni di clienti che le intestano una serie di propri dati sensibili ogni giorno, possa e debba avere una posizione esplicita su temi tanto centrali. Non solo quelli inevitabilmente legati al proprio business come per esempio la riservatezza dei dati, ma anche quelli più generali dell’interesse e dell’etica pubblica.
Sostengo da anni che esista un numero tutto sommato ridotto di grandi e grandissime aziende che, a dispetto di strategie commerciali e quotazioni azionarie, hanno oggi un legame implicito con la propria clientela fino al punto da rendere stridente perfino la parola stessa cliente, tanto il legame è diventato simbiotico e biunivoco. Apple è una di queste, così come lo sono i provider che si occupano della nostra connettività alla rete, così come lo sono – contro ogni attesa – le banche alle quali affidiamo le nostre transazioni. Nel momento in cui attraverso quei cavi, quei software e quei terminali iniziano a circolare parti rilevanti delle nostre vite, simili soggetti saldano una sorta di patto con noi che supera i termini di un contratto commerciale. O così almeno dovrebbe essere nel loro stesso interesse. A maggior ragione in un periodo di grandi incertezze come questo in cui l’assalto ai nostri dati da parte dei nostri stessi governi ha contribuito a confondere i buoni con i cattivi, i controllori con i controllati. Tutta la vicenda Snowden è un’ottima sintesi di questa nuova schizofrenia nella quale non è chiaro chi sia alla fine la guardia e chi il ladro.
Molti di questi soggetti terzi si presterebbero oggi ad essere, se lo volessero (ma non lo vogliono quasi mai) i fiduciari di pezzi rilevanti delle nostre vite, come se una quota del canone che pago ogni mese per l’adsl o l’acquisto di uno smartphone, comprendessero anche un ruolo relazionale del mio provider o di una azienda tecnologica nei miei confronti.
Se la lettera di Cook rappresenta, come a me sembra, un tassello di un nuovo rapporto sociale con le persone che Apple ha intorno (non necessariamente quelle che acquistano i loro prodotti) e non solo un episodio occasionale o peggio una trovata del marketing, lo si vedrà nei prossime mesi. Quello che è evidente è che in un mondo digitale nel quale ormai tutti comunichiamo tutto, ciò che abbiamo da sempre considerato politico sfuma e si diffonde ovunque. Come nella scena di quel racconto breve in cui due giovani sessantottini stanno facendo l’amore quando improvvisamente entra nella stanza un estraneo. Sei compagno? chiedono i due all’imbarazzato terzo incomodo. Sì – risponde quello titubante. Allora puoi restare.