Piccoli segni di un grande declino
La grammatica dei piccoli segni. Particolari senza importanza che invece – guarda un po’ – spiegano tutto.
Il noto sito web Dagospia, ora in lieve decadenza ma per anni citato e letto nel sottobosco politico-imprenditoriale italiano, copia e incolla da tempo interi articoli tratti da quotidiani, settimanali e siti web senza averne diritto, spesso condendoli di immagini di suo gusto (non infrequentemente, quando è possibile, a contenuto semi pornografico) senza che nessuno dei grandi editori italiani da cui Dagospia attinge si sia mai lamentato più di tanto. Per quanto riguarda le immagini, da almeno un decennio, il criterio di utilizzo da parte di Dagospia è anch’esso a costo zero e specificato nel footer del sito con questa frasetta rassicurante:
Le foto presenti su Dagospia.com sono state in larga parte prese da Internet, e quindi valutate di pubblico dominio. Se i soggetti o gli autori avessero qualcosa in contrario alla pubblicazione, non avranno che da segnalarlo alla redazione – indirizzo e-mail rda@dagospia.com, che provvederà prontamente alla rimozione delle immagini utilizzate.
Ovviamente le foto “prese” da Internet non sono quasi mai di pubblico dominio ma sono, in larghissima parte “rubate” a qualcuno che ne detiene la proprietà intellettuale. Se ho rubato il tonno al supermercato, dice Dagospia, tu cassiera puoi stare serena perché io, una volta scoperto, sarò ben disposto a restituirlo.
Il punto non è ovviamente tanto Dagospia e la sua tendenza a guadagnare soldi con i contenuti altrui quanto quello di un Paese nel quale Dagospia, invece di essere relegato come meriterebbe negli scantinati dei peggiori siti web, viene citato, in qualche misura ammirato ed il suo creatore invitato a dispensare opinioni in TV.
Qualche settimana fa il Ministro dei Beni Culturali Franceschini ha presentato un inutile aggregatore web di informazioni turistiche, pensato in collaborazione con Expo chiamato verybello.it. Sono seguite molte polemiche, tutte variamente giustificate, che hanno trasformato il progetto del Ministro in un fallimento comunicativo di vaste proporzioni (anche se il Ministro tutto contento ha detto giusto ieri che il sito è stato un grande successo di pubblico). Ma al di là di gusti, design e inadeguatezze varie, nei termini di utilizzo di verybello.it, progetto del Governo italiano e non di un D’Agostino qualsiasi, è possibile leggere queste righe:
Le immagini pubblicate, nel rispetto dei diritti degli autori dei contenuti raffigurati, sono considerate di pubblico dominio salvo diversa indicazione espressa e provengono in gran parte da Internet o comunque da fonte liberamente accessibile. Gli interessati o gli aventi diritto possono comunicare le loro osservazioni in merito alla pubblicazione delle immagini scrivendo a infoverybello@beniculturali.it, che valuterà le richieste e l’opportunità di rimuovere le immagini pubblicate nel pieno rispetto delle normative vigenti.
Anche le foto del Ministero del Beni Culturali sono state “trovate” su Internet (nel caso di Dagospia erano ”prese” in quello del Ministro “provengono”) anche in questo caso sono considerate di pubblico dominio fino a prova contraria. “Il pieno rispetto delle normative vigenti” con cui si conclude la filippica burocratica ha una sua intrinseca comicità, visto che le affermazioni che la precedono sono in chiara violazione delle norme vigenti sulla proprietà intellettuale.
Piccoli segni di un atteggiamento irrispettoso e sfrontato. O se preferite, semplice incuria verso le particelle elementari della nostra reputazione digitale. Un’ignoranza devastante e sotterranea che ancora una volta non riguarda tanto i furbetti che hanno scritto simili avvertenze ma un Paese intero per il quale simili piccoli segni sono privi di quel valore etico che altrove viene loro riconosciuto, un valore per altro fondante, necessario a scremare valore e competenze da cialtroneria e furbizie.
Qualche giorno fa il Corriere della Sera ha “preso” o “prelevato” – non so bene – da Internet decine di vignette pubblicate sul web dopo la tragedia di Charlie Hebdo e ne ha fatto un instant book benefico. Lo ha fatto senza chiedere permesso agli autori, esattamente come Dagospia e come Verybello.it, forse confidando nella benevolenza dei vignettisti oppure semplicemente non curandosene. Molti degli autori – come è naturale – non l’hanno presa bene, ma il danno reputazionale che il Corriere ed il suo editore hanno subito è durato il tempo di un flame su Twitter. Un giornalista del Corriere che io stimo molto, una brava persona che conosce il mondo – mi ha scritto un messaggio al riguardo dicendomi “ma insomma è un libro per beneficenza, nessuno ci guadagna, cosa c’è di male?”
E questo è in definitiva il punto. Il male c’è, è sotterraneo e misconosciuto spesso anche ai migliori di noi e viaggia dentro piccoli segni molto significativi. È la grammatica di una distanza dalle regole di cui questo Paese è inzuppato fino al midollo e certo non da ieri. Internet ha solo reso simili povertà meglio evidenti. Ma Internet, se possibile, ha anche aggiunto qualcosa a sancire un nuovo fallimento collettivo. Quello per cui la scoperta delle cialtronerie e l’indignazione che tutto questo scatena sale rapidamente e colpisce forte secondo i canoni della condivisione digitale ma poi dura – quando va bene – lo spazio di un secondo.