Oblio e politica: un amore di retroguardia
Il diritto all’oblio è l’ultimo degli innamoramenti dei nostri parlamentari. Lo vorrebbero ovunque, come la rucola negli anni 90 e come certi aceti balsamici da grande magazzino sul gelato e sull’insalata. Le ragioni di una simile infatuazione non sono complicate da immaginare: Internet costringe ad una nuova memoria, spezza la nostra fisiologica abitudine a selezionare i ricordi, a rimuovere quelli spiacevoli e a idealizzare quelli migliori. Non solo: in certi Paesi con una scarsa responsabilità sociale come il nostro, i meccanismi di rimozione sono diventati da un po’ di anni una vera e propria strategia politica. L’opinione pubblica è segmentata, distratta e disinteressata: essere politicamente impresentabili, per ragioni etiche o giudiziarie, è diventata ormai una condizione molto comune ma con una data di termine sostanzialmente breve ed una via di fuga a portata di mano. Sono sufficienti pochi anni, talvolta pochi mesi di camaleontico mimetismo perchè chiunque, anche il peggiore gaglioffo, possa ripresentarsi sulla scena pubblica con la reputazione riverniciata dalla dimenticanza dei più.
In un contesto del genere la maggioranza di noi ha una sorta di istintiva preferenza per l’oblio. In questa maniera il dimenticare, da limite biologico si trasforma in valore. C’è qualcosa di paradossale in questo: la rete estende le nostre possibilità documentali, noi rispondiamo no, grazie, preferisco rimanere nella mia ignoranza.
Dentro questa reazione automatica si inscrive la grande attenzione per la sciagurata sentenza della Corte di Giustizia Europea che coinvolge Google. Si tratta di una sentenza per ora limitata e sostanzialmente formale (chiunque può aggirarla banalmente utilizzando google.com al posto della versione nazionale del motore di Mountain View) ma dalle implicazioni ampie e spesso non preordinate. Una di queste è per esempio che una pessima sentenza venga portata su un piatto d’argento in Italia dove, alla grande attitudine a dimenticare, si somma un certo serpeggiante e per certi versi giustificato fastidio per Google e le sue vaste propaggini.
E come la rucola e l’aceto balsamico insegnano ecco il diritto all’oblio piombare, a sorpresa e a peso morto, dentro la recente formulazione della nuova norma contro la diffamazione a mezzo stampa in questi giorni approvata al Senato e che ora dovrà tornare alla Camera. Una legge che – va detto – ha alcuni punti fermi molto importanti e condivisibili: elimina per i giornalisti la possibilità di finire in carcere, prevede forme di rettifica adatte ai tempi e, per quanto riguarda Internet, distingue molto chiaramente fra testate giornalistiche registrate e la vasta e varia moltitudine di altre forme di comunicazione digitale. Di questi tempi non è poco.
Ma in base al principio empirico secondo il quale più una legge dello Stato prosegue il suo iter e più peggiorerà, nella sua ultima formulazione i Senatori hanno aggiunto all’art. 3 un accenno al diritto all’oblio.
1. Fermo restando il diritto di ottenere la rettifica o l’aggiornamento delle informazioni contenute nell’articolo ritenuto lesivo dei propri diritti, l’interessato può chiedere l’eliminazione, dai siti internet e dai motori di ricerca, dei contenuti diffamatori o dei dati personali trattati in violazione di disposizioni di legge.
Nulla di troppo strano, date le premesse di cui dicevo all’inizio ma lo stesso una scelta del tutto sconsiderata, figlia di una sostanziale incapacità a comprendere alcuni fatti elementari. Il primo che il diritto all’oblio non c’entra nulla con la diffamazione ma attiene al principio di riservatezza dei cittadini, il secondo che il valore documentale delle informazioni in rete dovrebbe di norma prevalere rispetto alle volonta dei singoli se non vogliamo che i fenomeni di imbarazzante rimozione collettiva ai quali abbiamo assistito in questi anni si perpetuino ancora, il terzo che i motori di ricerca non sono altro che lo specchio dell’esistente messo in ordine secondo un algorimo matematico (e quindi se si vuole cambiare il ranking dei risultati si dovrebbe agire sui contenuti indicizzati e non sui meccanismi di indicizzazione), il quarto che non si capisce come mai appena in Europa viene prodotta una pessima legge i parlamentari italiani di ogni ordine e grado mostrino questa tendenza ad innamorarsene. In realtà un po’ si capisce.
Perché il diritto all’oblio è anche una specie di diritto ostentato a rimanere come prima, a utilizzare vecchi punti di riferimento come bussole per il nuovo mondo. E la suprema ipocrisia di un simile atteggiamento è escogitare meccanismi per chiudere gli occhi a Google lasciando intanto il mondo dietro. Ogni occasione è buona. Il mondo dietro, in fondo, non è un grosso problema. L’importante è che resti lontano e inaccessibile ai più. L’importante è che la tecnologia sia confortevole alle nostre esigenze. Tipo dimenticare le cose brutte, quelle scomode, quelle imbarazzanti. Non entrare nel merito, sfuggire le responsabilità. Più che un diritto è una esigenza pressante. L’aspirazione a rimanere piccoli. Una scelta di retroguardia in mano a decisori di retroguardia.