Le parole di Serra e quelle nostre
Quando Michele Serra pubblica un libro le sue parole vengono lette. Non solo. Vengono commentate, ricopiate, discusse in pubblico o privatamente. Se è il caso contestate. Questo avviene sempre, chiunque sia l’ autore. Nel momento in cui uno di noi scrive un libro apre uno spiraglio della propria vita agli altri. E lo fa intenzionalmente. A molti di noi piace esprimere pensieri ed osservare cosa ne pensano gli altri; ad alcuni di noi è consentito farlo scrivendo un libro, pubblicando un articolo su giornale o scrivendo in rete.
In tutti questi casi accade una cosa inevitabile: le parole escono da noi e diventano di tutti, si fanno cibo per l’intelligenza (o la stupidità) altrui. Nel momento in cui Michele Serra pubblica un libro, scrive la sua rubrica su un quotidiano o discute su Internet (ok scherzavo) di un argomento qualsiasi, i suoi pensieri, fatti salvi i meccanismi regolatori legati al diritto d’autore, diventano patrimonio pubblico. Nelle società occidentali la condivisione della conoscenza funziona in questa maniera da molti secoli.
Così quando Serra, dalle pagine di Repubblica, chiede al falso Michele Serra che da anni amministra un profilo Facebook usurpando il suo nome, di essere lasciato libero, da un certo punto di vista apre una discussione più complessa di quanto non sembri.
Perché dunque ti scrivo, a te falso me dei social network? Per chiederti, nella sola maniera pubblica che mi è propria (la pagina di un giornale), se per favore puoi smetterla di usare abusivamente il mio nome e il mio volto. Se per piacere puoi morire in quanto me, e vivere in quanto te. Oppure essere te, per ragioni che non posso e non voglio sapere, ti pesa al punto di non volerlo più essere? E nel caso, comunque: io che cosa c’entro?
Tutte le piattaforme di rete sociale come Facebook o Twitter hanno sistemi di controllo più o meno efficienti per limitare il proliferare di falsi profili intestati alle celebrità più varie. Accade spesso. In Italia, per esempio, accade frequentemente su Twitter per i profili di politici e governanti. Twitter – da parte sua – ha implementato una sorta di bollino blu che garantisce l’autenticità di un profilo attribuito ad un qualsiasi VIP e anche Facebook consente in pochi passaggi di segnalare simili problemi. Molti di questi meccanismi di controllo – è vero – potrebbero essere migliorati. Tuttavia non è questo il punto interessante: non ci interessa oggi la difficoltà più o meno consistente di veder riconosciuta il proprio naturale diritto a non essere scambiato con un impostore che utilizza il nostro nome e le nostre foto spacciandosi per noi.
Il punto interessante è che in un numero rilevante di casi i profili fake non sono altro che forme di discussione pubblica che estendono temi e argomenti utilizzati dal personaggio in questione. In altre parole non tutti i profili falsi sono uguali: accanto a quelli che causano intenzionalmente dubbi su chi sia il gestore di quelle pagine ne esistono moltissimi che partecipano alla discussione pubblica in maniera fattiva e talvolta perfino geniale.
Il caso della pagina Facebook di Michele Serra è certamente uno di questi. Una pagina web amministrata da un fan del giornalista nella quale venivano offerte alla discussione di rete frasi ed articoli di Michele Serra. Una parte dell’elaborazione pubblica sui pensieri del giornalista che esce dal controllo dell’autore per farsi piazza.
Chiunque abbia avuto accesso a quella pagina (che nel frattempo l’amministratore ha dichiarato di voler chiudere, aderendo alla richiesta di Serra) poteva capire che si trattava di una pagina “non ufficiale” (c’è scritto chiaramente nell’intestazione); qualsiasi persona di buon senso poteva vedere immediatamente che tale ambito di rete era più una fan page che non un luogo di dileggio dell’autore. Chiunque – compreso Serra che certo invece che sparare al passerotto con il cannone della prima pagina di Repubblica avrebbe forse potuto chiedere al gestore di associarla meno direttamente al suo nome-cognome o di eliminare la sua foto dal profilo, se proprio gli dava fastidio – poteva rendersi conto che niente da quelle parti imponeva l’intervento della Polizia Postale.
Nulla di quella pagina pubblica si discosta troppo dal trattamento che un personaggio pubblico si deve attendere nel momento in cui rilascia, per mestiere o passione, i propri pensieri al commento altrui. Nulla tranne forse un malinteso evidentemente difficile da capire: quello secondo il quale il commento del proprio lavoro in rete configuri una sorta di invasione barbarica alla propria attività intellettuale, mentre se un medesimo trattamento avviene sulle pagine di un altro quotidiano o in TV tutto questo faccia parte a buon diritto della normale dialettica informativa.
“Ho già amici quanti ne bastano” dice Serra, quasi a scostare un’attenzione un po’ asfissiante che i suoi lettori gli manifestano in rete. Per il resto nessuno pretende che Serra sia su Facebook o su Twitter a manifestare ulteriormente il suo pensiero. Ha ragione, la sua notorietà e le sue preferenze, uguali a quelle di tutti noi, gli consentono a buon diritto di non farlo. Per tutto il resto però, nel momento stesso in cui il suo libro o il suo articolo vengono resi pubblici, continuerà a non esserci molto da fare. Quelle parole diventeranno le parole di tutti, verranno mescolate, rubate, riusate e prese in giro. E non ci sarà per fortuna Polizia Postale che tenga.