Wikileaks e il drago
La notizia di questa sera è che Julian Assange si è rifugiato nella ambasciata dell’Ecuador a Londra dichiarandosi perseguitato politico. Non ho idea di come andrà a finire tutta la storia tuttavia la vicenda di Wikileaks e di Julian Assange ha alcuni punti fermi. Li annoto qui per chi li ha visti e per chi non c’era.
1) Wikileaks è stato un grande strumento di rivoluzione informativa. Ha mantenuto una forte orgogliosa autonomia anche nel momento in cui, al massimo del suo successo, ha scelto di fornire ai grandi media mondiali le anteprime delle proprie indiscrezioni. Il matrimonio con il miglior giornalismo poteva essere una grande idea, in realtà forse non lo è stato, perché se Wikileaks poteva non avere padroni, i giornali, anche i migliori, ne avevano tutti almeno un paio.
2) Le accuse di violenza sessuale che i magistrati svedesi imputano a Assange sono risibilissime e quasi incredibili per come sono state messe assieme. Il rischio che si tratti di accuse inventate resta molto forte e che fossero la base per un accordo di estradizione fra Svezia e USA. Che Assange dopo l’euforia iniziale sia stato abbandonato da quasi tutti è oggi, in ogni caso, molto evidente.
3) L’offensiva paragovernativa delle aziende americana contro Wikileaks, in particolare quella del sistema bancario (Visa, Mastercard, Paypal) che ha ostacolato come ha potuto le raccolte di fondi da parte di cittadini di tutto il mondo in favore di Wikileaks/Assange, e di quelle che ne hanno minato la visibilità sul web (Amazon, EveryDNS e altri), è stata una delle piccole vergogne recenti del sistema americano. La democrazia americana ha spesso problemi a riconoscere i medesimi valori di cui si vanta fuori dai propri confini e la ragion di stato è in grado di penetrare ovunque, perfino nelle aziende innovative della Valley. Gli USA contro Wikileaks non sono quelli del Primo Emendamento, sono invece quelli meno confortanti di Guantanamo o dei 500 giorni di carcerazione senza processo, in condizioni di gravi privazioni, di Bradley Manning.
4) Wikileaks è morto (o quasi) per colpa dell’ego ipertrofico di Assange ma anche per ragioni meno misere: l’etica hacker funziona forse dentro piccoli universi, spiega con esattezza limitate relazioni, descrive sentimenti per piccole comunità. Quando incoccia nel monolite dei grandi interessi politici ed economici perde rapidamente la propria battaglia (magari in nome di un preservativo sfilato) chiunque sia il guerriero che si fa carico di dichiarare battaglia. Quello che forse il fallimento di Wikileaks ci insegna è che possiamo costruire reticoli di piccole trasparenze, annotare singoli mattoni di informazioni importanti per la comunità dentro luoghi ben delimitati, ma che per adesso non possiamo uscire fuori ed uccidere il drago. Non su Internet, non ancora.