La segregazione su Internet
La questione della polarizzazione dei contenuti su Internet non è argomento nuovo. Eli Pariser la riassume molto bene in questo video su TED e ne tratta nel suo libro uscito negli Stati Uniti a metà dell’anno scorso. È questo del resto uno dei temi forti della critica conservatrice alle potenzialità della rete Internet. Detto in poche parole, all’ampio stuolo di entusiasti che da un decennio inneggiano alle grandi nuove libertà intellettuali che la rete Internet per la prima volta consente, si contrappone un pensiero opposto e variamente circostanziato secondo il quale le dinamiche di rete tendono, per loro stessa natura, a omogeneizzare posizioni e punti di vista. A una Internet che libera le nostre menti si opporrebbe quindi una sorta di rete-orticello nella quale ciascuno di noi preferisce alla curiosità per il diverso le più rassicuranti certezze dei propri simili.
La stupidità degli algoritmi di Google, Amazon o Facebook, citata da Pariser, è solo una parte del problema e ne è probabilmente la frazione di più facile soluzione. Gli algoritmi possono essere in fondo cambiati, migliorati e raffinati, anche conservandone la spicciola utilità economica per la piattaforma che li propone. A margine resta in piedi, salda ed inscalfibile, la questione di un orizzonte culturale inedito, affidato in larga misura a una serie di righe di codice scritte dagli ingegneri del software, trasformati, per amore o per forza, nella nuova elite di indirizzo culturale del pianeta. Da Montale a Bram Cohen, in attesa che le macchine prendano definitivamente il sopravvento (faccina).
Invece la parte maggiormente rilevante dell’approccio conservatore alla polarizzazione dei contenuti di rete è più difficile da controbattere rispetto alla sintassi degli algoritmi. Si basa, in larga parte, su numerosi studi sociali che riguardano abitudini e contrapposizioni della società contemporanea e non sulle scapestrate scelte di indirizzo di Mark Zuckerberg.
Nicholas Carr, nel suo libro The Big Switch, cita per esempio uno studio di Thomas Shelling, premio Nobel per l’economia, che nel 1971, insospettito dalla persistente separazione territoriale dei bianchi e dei neri negli Stati Uniti, disegnò una griglia casuale di puntini bianche e neri a rappresentare una ipotetica città multirazziale. L’alternanza dei quadratini bianchi o neri, che simboleggiava le case delle famiglie di differente razza era disposta su carta senza alcun criterio: il disegno, in bianco e nero, di una comunità completamente integrata. Il passo successivo dello studio di Shelling considerò che ciascuna famiglia preferisse (come usualmente accade) avere vicini di casa simili. Se la percentuale di vicini di casa simili scende sotto il 50 per cento la famiglia, bianca o nera che sia, cambia casa e si sposta nel primo spazio libero della griglia. Continuando a spostare i puntini bianchi e neri secondo questo semplice criterio Shelling ottiene rapidamente una città completamente segregata. I puntini bianchi da una parte, quelli neri dall’altra. Una minima preferenza, quella di vivere accanto a persone simili, crea una fragorosa separazione sociale. “In certi casi – scrisse Shelling spiegando lo studio – piccoli incentivi, modeste impercettibili differenze possono portare a risultati fortemente polarizzati”.
Non meraviglia affatto che la critica conservatrice allo sviluppo delle reti utilizzi simili approccio (e molti altri simili assai ampiamente studiati) per spiegare la natura pericolosa della rete. Internet non sarebbe quindi, come scrisse Negroponte nel suo celebre saggio del 1995 Being digital, “una forza naturale che conduce le persone verso una maggiore armonia mondiale” ma un luogo di cristallizzazione e contrapposizione dei punti di vista.
Esiste insomma un doppio lavoro da fare: educare gli algoritmi imbizzarriti delle grandi società Internet e sostituire ai nostri umanissimi approcci consolatori una nuova curiosità. Continuare a leggere anche Nicholas Carr e quelli come lui è il mio piccolo contributo alla causa (faccina).