Apple, l’Italia e la nuvola
Tralascio le molte cose interessanti presentate da Apple al WWDC di ieri per citarvi le due che mi hanno maggiormente colpito. La prima è questa slide.
Racconta, con ottimistica approssimazione (in realtà le case degli italiani senza un PC sono ben più del 30 per cento circa indicato dal grafico), di un ritardo tecnologico noto di questo Paese che dovrebbe preoccuparci. Paradossalmente ora, con iCloud e con i sistemi di cloud computing analoghi che un po’ tutti stanno mettendo in piedi, il centro del nostro universo collegato, l’armadio dei nostri contenuti digitali, non sarà più l’hard disk del computer casalingo ma il nostro spazio sulla nuvola.
E sono pronto a scommettere che fin da domani qualcuno riuscirà a leggere il ritardo tecnologico contenuto in questa slide come una nuova opportunità per risollevare le nostre tristi sorti: visto che acquistiamo smartphone e tablet e che questi da oggi potranno egregiamente essere considerati terminali di rete, il ritardo legato ai pochi PC nelle case sarà destinato ad annullarsi. Sono stupidaggini, lo disse già l’indimenticato Ministro delle Comunicazioni Salvatore Cardinale un decennio fa, quando ci informò che l’annoso ritardo di accesso a Internet di questo Paese sarebbe stato colmato dal grande successo di vendita dei videofonini. Non accadde allora e non accadrà oggi: i computer, sulle scrivanie delle nostre case, resteranno ancora per molto tempo un presidio indispensabile alla crescita culturale legata alle nuove tecnologie ed a Internet.
Il secondo aspetto di cui vi volevo dire è in realtà una mia personale delusione, alimentata dalle mille voci che, come sempre, si sono rincorse nei giorni precedenti all’evento. Apple non ha messo in piedi, di concerto con le major del disco, nessun sistema musicale nella nuvola basato sullo streaming e su tariffe di accesso flat. Non ha insomma ripetuto l’esperienza fatta ai tempi dell’apertura di iTunes Music Store, proponendo scelte per quei tempi rivoluzionarie, nuove tariffe per nuovi formati, la forzatura di un sistema che era bloccato da un lato dalla paura dell’industria discografica, dall’altro dalla pirateria dilagante.
Sono passati otto anni da allora e i tempi ed i contesti tecnologici sono cambiati moltissimo. L’industria discografica continua ad essere in discreta confusione, la pirateria è ancora oggi la forma di approvvigionamento più utilizzata per la musica online. Ci sarebbe stato bisogno di un ulteriore nuovo sforzo immaginifico: esperienze come quella di Spotify o di Pandora indicano quali siano i percorsi possibili. Al sistema musicale mancava però, ancora una volta, il traino di un grande soggetto capace di forzare i cordoni dell’ovvio e di far valere il proprio peso con l’industria discografica. Al momento né Amazon né Google sembrano in grado di farlo. Da ieri sappiamo che, per qualche ragione, nemmeno Apple ha intenzione di esporsi in tale direzione. Che si tratti di una scelta aziendale o della conseguenza di una rigidità delle major (da sempre allergiche ai sistemi di streaming) non è dato saperlo. Di sicuro iTunes on the cloud è per ora un semplice adeguamento tecnologico dell’ambiente musicale Apple (con annesso condono musicale di iTunes Match riservato per ora e chissà per quanto alla sola clientela americana) alla logica della nuvola.