Storia di Luchetta, Ota e D’Angelo, giornalisti a Mostar
Chiunque lavori alla Rai di Trieste, se ha una certa età, quando gli chiedete dov’era il 28 gennaio del 1994, 25 anni fa, risponde senza nessuna esitazione. Se lo ricordano tutti, come ci ricordiamo tutti dov’eravamo quando abbiamo saputo del rapimento di Aldo Moro o dell’11 settembre. Sono le notizie che si stampano nell’album della tua vita. Per la Sede Regionale Rai del Friuli Venezia Giulia – ma anche Deželni Sedež za Furlanijo Julijsko Krajino e Sede Regjonâl Friûl Vignesie Julie, come dice la targa grigia sul marmo del palazzo anni ’60 perché questi sono posti con tanti strati – il 28 gennaio 1994 è un giorno inchiodato per sempre. Tutti si ricordano dov’erano quando arriva la notizia che sono morti Luchetta, Ota e D’Angelo. Quelli della Rai di Trieste dicono Marco, Alessandro o Saša, e Dario.
Loro erano a Mostar, Bosnia, ex Jugoslavia, c’era la guerra. Lavoravano a un servizio per il TG1 sui bambini rimasti senza genitori. Stavano tornando a casa. Non avevano potuto girare le immagini che avrebbero voluto girare, quelle a Mostar est, assediata da mesi. Era già successo poco prima di Natale. Adesso uguale: non si entra. Avevano le interviste girate nella zona Ovest, in un ospedale. Ma non bastavano per un lavoro serio: “Se non mostriamo come vivono intere famiglie in quei rifugi sotto le bombe il servizio non sta in piedi” aveva detto Luchetta prima di partire a Giovanni Marzini, amico e collega. Adesso stanno tornando a Trieste, è il primo pomeriggio, sono già in macchina. Incontrano un convoglio della Croce Rossa che va verso Mostar Est. Lo fermano, chiedono. Il capo convoglio è un italiano che Luchetta conosce, dice che possono portarli con loro. C’è la scorta dei Caschi Blu spagnoli, c’è un “Cessate il fuoco”. Durerà un’ora, poi ricominceranno a sparare. Si può fare, ma tocca fare in fretta. Bisogna decidere, spetta a Luchetta. Lui chiede ai colleghi: si va. Lasciano l’auto, salgono sul blindato. Lucchetta ha l’indirizzo di una specie di rifugio dove vivono alcune famiglie. Glielo ha dato un informatore fidato. Ci arrivano. È nel seminterrato di un palazzo. Ci sono una decina di bambini, nonne e mamma. Nessun uomo, gli uomini se non sono scappati li hanno già ammazzati tutti. C’è poca luce per girare immagini decenti. Si spostano fuori, pare tutto tranquillo, c’è un bambino che corre dietro di loro. Ota, l’operatore, non fa in tempo ad accendere la telecamera. Arriva il colpo di mortaio, il “Cessate il fuoco” è durato meno di 10 minuti. Il proiettile colpisce un terrapieno, genera una enorme quantità di schegge che investe tutti. Il bambino, quattro anni, è leggermente ferito, resterà intontito e sordo per mesi ma si salva protetto dai corpi dei tre italiani.
Adesso ha quasi trent’anni, sta vicino a Goteberg, Svezia. Si chiama Zlato Omanović, è alto un metro e novanta, fa pugilato ed la continuazione di questa storia. È venuto a Trieste con sua mamma, sei mesi dopo quel giorno che tutti si ricordano, grazie alla Fondazione che porta i nomi di Luchetta, Ota, D’angelo e Miran Hrovatin. Lui è morto neanche due mesi dopo gli altri, a Mogadiscio con Ilaria Alpi. Era di Trieste. Zlato è stato il primo bambino curato dalla Fondazione, aveva ferite da schegge e molta paura. Poi la Fondazione ha aiutato la sua famiglia a rimettersi insieme, in Svezia, dove il padre era scappato per salvarsi. Dopo Zlato la Fondazione ha continuato ha curare altri bambini feriti in guerra o malati di malattie difficili da guarire nei paesi d’origine. Quasi mille, tutti ospitati a Trieste con i genitori e curati insieme ai bambini italiani.
Racconta Giovanni Marzini, il collega di Luchetta, che Zlato è tornato una volta in quel cortile di Mostar con Andrea, il figlio del giornalista ucciso. Sono stati un po’ in silenzio davanti alla targa che ricorda quel 28 gennaio e poi Zlato si è allontanato per rispetto verso Andrea. A Andrea allora si è avvicinato un cane, gli si è seduto accanto e quando si è alzato per andarsene il cane ha fatto lo stesso. Non lo ha mollato. Così Andrea Luchetta lo ha portato con sé a Roma. Lo ha chiamato Stari, come Stari Most, il Vecchio Ponte di Mostar distrutto a colpi di mortaio dai croati e ricostruito dalla comunità internazionale. Serve molta determinazione, sempre, per ricostruire qualcosa.
Oltre alla Fondazione, insieme al ricordo di tanti, a Trieste c’è un premio giornalistico internazionale dedicato a Luchetta e un festival del buon giornalismo che si chiama Link.
Giovanni Marzini dice che le ultime immagini del suo amico Marco sono nella cassetta Beta recuperata nel borsone di Saša Ota. C’è il suono in presa diretta dall’interno del blindato. “Il finestrino è piccolo, ma Alessandro è bravissimo: ci mostra la strada principale di Mostar, zooma su uno dei campanili musulmani, indugia su quelle case martoriate dai fori dei mortai che per mesi hanno vomitato razzi dalle colline circostanti”. Poi c’è Marco Luchetta, fuori dal blindato, che cerca l’indirizzo di quel rifugio, deciso ad arrivarci.
Sul sito della Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin per i bambini vittime della guerra, qui, c’è una foto di Zlato Omanović bambino con lo sguardo serio e un filo d’erba in mano come lo sanno tenere solo i bambini.
(Da L’arancia nel cesto di Giovanni Marzini , Prandicom, 2018)