Morte di un matematico francese
Vennero a prenderlo i paras con i berretti rossi. Erano una dozzina, erano le 11 di sera. Sfondarono la porta di casa, ad Algeri, distretto di Champ-de-Manouvres. Era con sua moglie Josette e i figli. Avevano 3 anni, 18 mesi e 1 mese. Lo portarono a El-Biar, un sobborgo sulle alture della città, in un edificio in costruzione. Nella Battaglia di Algeri era diventato un centro di tortura dall’esercito francese. Il 1er régiment de chasseurs parachutistes aveva poteri di polizia: arrestava e interrogava. C’era la legge marziale, i paracadutisti padroni della città, il generale Massu che voleva l’ordine ripristinato “con ogni mezzo”.
Era l’11 giugno del 1957. Maurice Audin muore di tortura qualche giorno dopo, a 25 anni. È francese, anticolonialista, iscritto al Partito Comunista algerino. Per lui e per sua moglie l’indipendenza dell’Algeria è semplicemente una cosa ovvia. È un matematico, geniale dicono, insegna all’università di Algeri e sta preparando la tesi di dottorato alla Sorbona. Henri Alleg, un giornalista arrestato il giorno dopo a casa sua – i paras la usano come una trappola per topi – è l’ultimo civile ad averlo visto vivo. Poi ci sono i militari. Dopo molte richieste dicono a sua moglie che è fuggito durante un trasferimento. Hanno anche un rapporto ufficiale, pieno di dettagli: la jeep costretta a rallentare, lui che ne approfitta e salta giù veloce come un gatto, i paras che gli sparano dietro. “Suo marito per noi è un evaso. Chissà dov’è finito”. Poi più niente, neppure il corpo.
Lei, Josette Audin, ha passato tutta la vita a chiedere verità e giustizia: lettere – a centinaia – petizioni, un Comitato – Comité pour la recherche de Maurice Audin – che si riunisce regolarmente per anni. Tanti articoli sui giornali, molte richieste ai tribunali, per anni. Adesso Josette ha 87 anni, abita a Bagnolet, periferia di Parigi, in un appartamento di un piccolo edificio bianco, 5° piano. Scrive Le Nouvel Observateur che è “circondata da foto di suo marito che non è mai cresciuto più dei suoi nipoti”.
Ieri il presidente Emmanuel Macron è andato a trovarla, lì a casa sua, e le ha chiesto scusa. Ha riconosciuto la colpa. Ha ammesso “in nome della Repubblica francese, che Maurice Audin è stata torturato e poi giustiziato, o torturato a morte, da militari che lo avevano posto arresto in casa sua”. E che non era un caso isolato, che era un sistema, che era legale. Era lo Stato.
Le Monde scrive che lei, Josette Audin, al telefono, ha una voce che sembra fragile ma poi viene fuori una grande forza d’animo. Maurice era l’amore della sua vita, non si era mai risposata. È emozionata per la visita del presidente. Ma, precisa, «la mia lotta non è finita. Come è stato ucciso Maurice? Come si chiamano i suoi torturatori? Dov’è il suo corpo?»
La verità ci mette anni a crescere. Sappiamo che la notte dopo quella dell’arresto lo ha incontrato il dottor Hadjadj, anche lui comunista, anche lui prigioniero a El-Biar. «Era circa l’una del mattino. (…) Audin era in mutande, sdraiato su una tavola. Fili elettrici attaccati con pinze all’orecchio destro e al piede sinistro. (…) Poi mi hanno portato in infermeria, ho sentito le grida di Maurice Audin. Grida soffocate da un bavaglio. Ha gridato a lungo». Sappiamo che i militari lo fanno incontrare con Henri Alleg, che ha iniziato il suo calvario di torture, perché il giovane matematico spieghi suo amico giornalista che cosa lo aspetta: «Sopra di me vidi il viso pallido e sparuto di Maurice che mi fissava mentre ondeggiavo sulle ginocchia. “È difficile, Henri”, mi disse, e fu portato via».
Nel 2012 Nathalie Funès del Nouvel Observateur ha trovato un documento inedito, attendibile: Maurice Audin è stato ucciso con un coltello da un sottufficiale dei paracadutisti, Gerard Garcet, e sepolto in una fossa a circa venti chilometri da Algeri. Lo hanno confuso con Henri Alleg, era lui quello da eliminare. Erano, anche, drammaticamente cialtroni. O forse Maurice Audin è stato strangolato dal tenente dei paracadutisti che lo sta interrogando. Gli saltano i nervi, ha una crisi di rabbia perché questo prigioniero non si decide a parlare. Si è fatto un nome, un ufficiale decorato della Legion d’onore. È morto nel 1995. Suo figlio dice che non è vero, che il padre gli ha raccontato di aver consegnato Audin ai suoi superiori. E che era, Maurice Audin, un prigioniero «troppo sensibile».
Padri e figli. Quelli di Maurice Audin adesso sono anche loro matematici. Lui, quando lo portano via di casa, 61 anni fa, lo vediamo in mezzo a due soldati, giù per le scale. Dice alla moglie: «Occupe-toi des enfants». Prenditi cura dei bambini.