«Hanno solo fame e freddo, aiutateli»
Nei primi sei mesi di questo 2017 sono sbarcati in Italia 83mila migranti. Di preciso 83.360. Nello stesso periodo del 2016 furono 70.222. Quindi sono aumentati. Sono tanti? Sono troppi? Sono pochi? È una faccenda complicata. Può servire guardarla da Brindisi.
Nel 1991 a Brindisi ne arrivarono 27mila. Ma in un giorno solo. Era il 7 marzo, giovedì. Arrivarono in barca, al mattino presto, due navi e una chiatta. Una si chiama Liriya e porta quattromila persone ammucchiate l’una sull’altra, senza cibo né acqua. Sono in mare da tre giorni, ci sono molti bambini. Grappoli umani. Qualche profugo si butta in mare per raggiungere a nuoto le banchine. Suonano le sirene e svegliano Brindisi. I migranti vengono dall’Albania, il regime comunista è crollato, oggi si direbbe “migranti economici”. Allora si comincia a contarli, sono 18mila, tantissimi. Poi ne arrivano ancora, 24 navi. Non finiscono mai. Poi barchette piccolissime stracariche di umanità dolente. Poi zattere costruite con qualche asse di legno legato con botti di plastica. Si riconta per capire quanti sono: sono 27mila. Brindisi ha 80mila abitanti e lo Stato non c’è. 27 mila albanesi esausti, affamati, feriti, senza un soldo, poveri e disidratati, morti di freddo perché è marzo. Vestiti con vestiti da poveri. Ancora prima di scendere dalle navi gridano “Italia, Italia”. Poi fanno il gesto della vittoria. Lo Stato arriva qualche giorno dopo. Nel mezzo fanno tutto i brindisini. Superano i primi minuti di stordimento – nessuno a Brindisi ha mai visto prima nulla del genere – poi si danno da fare. C’è un sindaco di 38 anni, Pino Marchionna, che fa diffondere un messaggio dalle radio e tv locali, dalle 8 del mattino, ogni 15 minuti. «Dovevo essere rassicurante perché sarebbe bastato il saccheggio di un negozio di alimentari per scatenare una guerra a mani nude. Dissi solo: “Hanno solo fame e freddo, aiutateli”. Alle 13 ebbi il primo segnale: la gente gettava sacchetti pieni di cibo dalle finestre».
Ci sono le forze dell’ordine, i vigili del fuoco, la Caritas, la Croce Rossa. Corso Garibaldi viene chiuso al traffico per facilitare il passaggio dei mezzi di soccorso che fanno la spola tra il porto e l’ospedale. Medici e infermieri lavorano 24 ore su 24.
«Vedevi anziane signore che inseguivano mamme con bambini per coprirli con giacche in genere oversize che fungevano per i piccoli da cappotto nelle cui maniche sparivano anche le mani. Gente che svuotava i frigoriferi e portava in strada pane, salumi, formaggi, frutta e ancora acqua e latte. Altri che invitavano i profughi a salire in casa per offrire loro un piatto caldo. Coperte e persino giocattoli che uscivano dalle case. Nessuna paura, nessun fastidio, diffidenza zero. Solo aiuto a fratelli e sorelle in difficoltà».
Dopo un paio di giorni incominciò a piovere. Trentamila ombrelli non li avevamo. L’Enichem fornì grandi teloni di plastica per chi ancora era rimasto nel porto in attesa di una sistemazione. Ma i brindisini erano sempre mobilitati. Si convocarono riunioni di condominio straordinarie per decidere che cosa fare, un compito per ogni inquilino. Si riunirono gli imprenditori e alcuni di loro furono disponibili ad assumere 10, 20 ospiti stranieri nelle loro fabbriche (all’epoca ancora si poteva). Un’accoglienza a 360 gradi. Anche noi giornalisti diventammo volontari: passaggi in auto per riunire le famiglie che si erano disperse nella confusione, indicazioni utili, distribuzione di merende a chi non aveva ancora raggiunto i luoghi istituzionali dell’accoglienza. Piccoli aiuti concreti prima di andare a scrivere a notte fonda nelle redazioni», racconta Tea Sisto del Quotidiano di Puglia.
Durò mesi l’emergenza a Brindisi. Pjerin Gjoni sta ancora cercando il brindisino che gli regalò 17mila lire per telefonare a casa e comprare un pezzo di focaccia. Nel frattempo è diventato un medico del 118.
(Dagli articoli di Tea Sisto, Quotidiano di Puglia 6 Marzo 2016, e Andrea Tundo, Il Fatto quotidiano, stessa data. Grazie)
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