Maruska
I primi partigiani entrano a Milano il 27 aprile 1945 alle 5 del pomeriggio. Vengono dall’Oltrepò. Il 28 aprile, alle 13, arrivano quelli della Valsesia. Alle 3 del pomeriggio in piazza Duomo c’è il primo comizio libero dopo vent’anni. In piedi su un piccolo carro armato parlano Luigi Longo e Sandro Pertini. Poi prende la parola una ragazza di 21 anni. Ha un caschetto di capelli neri e sorride. Porta a Milano liberata il saluto dell’Armata Rossa, l’esercito sovietico. Parla in russo e ha dietro una storia straordinaria. Il nome di battaglia è Maruska, quello vero Teresa Mondini. I suoi genitori sono comunisti di Imola, esuli in Francia. Lei è stata a Ivanovo, un collegio del Soccorso Rosso in Unione Sovietica dove studiano i figli dei comunisti di tutto il mondo: quelli di Mao, di Dolores Ibarruri e di Palmiro Togliatti. Lei, tra gli italiani, è la più grande, quella che conservava meglio la conoscenza della lingua madre e così traduce le lettere che arrivano dai genitori degli altri, scritte fitto fitto per usare ogni centimetro della carta delle carceri italiani. Ma ha solo qualche mese in più degli altri. A 18 anni si arruola nell’Armata Rossa, paracadutista e radiotelegrafista. Nella notte del 24 aprile 1944, a vent’anni, la lanciano in Bosnia, retrovie tedesche. Teresa raggiunge i partigiani iugoslavi – li comanda Tito e suo figlio Zàrko era anche lui ad Ivanovo – poi Trieste e Milano. Poi arriva dai partigiani della Val d’Ossola, quelli di Cino Moscatelli. Teresa e tiene i contatti dei partigiani con Mosca. Non sa più l’italiano e va bene così, trasmette quello che c’è da trasmettere e non sapere di che si tratta è meglio. Se i nazifascisti la catturano non gli dirà nulla di sicuro.
Adesso è in piedi su un carro armato, si guarda intorno – che piazza, quanta gente, che giornata – e sorride. Ha in mano un foglio ripiegato, appunti per il discorso che farà tra un attimo alla piazza entusiasta. È vestita con un cappotto militare, cresciuta, ma il caschetto è uguale a quello di quando era in equilibrio su una trave al collego di Ivanovo, la seconda da sinistra nella terza foto qui.
«Ero molto emozionata. Non ricordo che cosa dicevo». Traduce dal russo il compagno Luigi Longo, comandante generale delle brigate Garibaldi. Anche i suoi figli, Gino e Putiche, sono a Ivanovo.
(Da Un’altra parte del mondo, in uscita il 5 maggio con Feltrinelli)