Il genocidio e la denazificazione
A Mosca manca poco alle 6 del mattino – in Italia sono quasi le 4 – quando Vladimir Putin, da un canale (Rossija-24) della tv di Stato, annuncia, in un intervento di circa 28 minuti, di aver deciso di intraprendere un’operazione militare speciale nei confronti dell’Ucraina a protezione dei separatisti dell’area orientale del paese.
Putin chiede ai compagni delle forze armate ucraine di deporre le armi, negando di voler imporre il suo potere con la forza; sostiene di non volere l’occupazione dell’Ucraina, bensì la sua smilitarizzazione; parla di libertà di scelta e di diritto all’autodeterminazione, di salvaguardia della sicurezza russa e di decisioni dettate dall’autodifesa, del superamento della linea rossa da parte della Nato (l’Ucraina ne sarebbe una pedina) per il suo crescente espansionismo nelle zone di confine; mette in guardia l’Occidente dal pensare di poter intervenire in questioni riguardanti la Russia, o di ostacolarne l’azione, perché qualunque minaccia o interferenza produrrebbe conseguenze mai viste prima (un attacco nucleare, o l’uso di armi di nuova generazione); definisce gli Stati Uniti un impero di bugie, affermando l’estensione del suo modello imperialistico all’intero blocco occidentale, che pretenderebbe di imporre al popolo russo i suoi valori; ricorda la cruenta operazione militare Nato contro Belgrado (1999), avvenuta in violazione della Carta dell’Onu (l’intervento contro Slobodan Milošević, presidente della Repubblica Federale di Jugoslavia, non fu autorizzato dal Consiglio di Sicurezza), e denuncia l’uso illegittimo della forza militare in Iraq, in Libia, in Siria.
Due parole chiave della dichiarazione di Putin, piegate in tutta evidenza agli scopi di un’informazione manipolata o distorta, sono genocidio e denazificazione.
Il genocidio, accompagnato nel discorso dall’impegno di assicurare alla giustizia i responsabili delle vittime fra la popolazione civile, cittadini russi compresi, si sarebbe commesso durante il conflitto, costato oltre 14.000 morti (ripartiti fra separatisti e “unionisti”), fatto esplodere nel 2014 dagli indipendentisti filorussi nell’area del Donbass, suddivisa in tre oblast’ (‘regioni’, ‘province’): Donetsk, Luhans’k e Dnipropetrovsk (delle prime due repubbliche popolari la Duma ha riconosciuto l’indipendenza il 15 febbraio scorso). Nella guerra combattuta nell’area russofona del bacino del Donec e terminata con la riannessione all’Ucraina delle regioni ribelli, stabilita dagli accordi di Minsk (2015), nessuno si è però macchiato di crimini contro l’umanità, etnici, identitari, religiosi o altro.
Quanto alla denazificazione, per contestualizzarla nella lunga durata, il presidente russo è partito da lontano: dall’aggressione hitleriana alla Russia (22 giugno 1941), il cui errore – da non ripetere, secondo Putin – sarebbe stato di tentare di prevenire (o perlomeno ritardare) lo scoppio del conflitto; dalla sacralità dei risultati prodotti dal regime sovietico (e dei sacrifici dei cittadini) contro il nazionalsocialismo.
In Ucraina non c’è però alcuna ragione per voler affrancare il paese da un neonazismo al potere, sebbene l’ultranazionalismo ucraino abbia rialzato la testa dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e abbia visto nascere, nel 2013, un’organizzazione paramilitare neofascista – l’anno dopo divenuta partito – come il Pravyi Sektor (“Settore Destro”), fra i sostenitori delle violente proteste filoeuropee (Euromaidan, 2013-2014) che hanno portato alla destituzione del presidente Viktor Janukovyč. Le accuse mosse da Putin ai nazisti del regime di Kiev, eredi delle bande nazionaliste ucraine colluse con Hitler (come quella guidata da Stepan Bandera) e pronti ad annettere la repubblica autonoma di Crimea (invasa nel 2014 dalla Russia, di cui oggi è una repubblica federata) o la città federale di Sebastopoli, come già avvenuto per il Donbass, sono del tutto prive di fondamento.