Biglietto (lungo) lasciato prima di non andare via
Ho passato tutta la mia vita adulta a cercare un modo per non andarmene da Siracusa. Anzi sono abbastanza convinto che la decisione di non andarmene da Siracusa sia venuta a coincidere con il momento in cui ho cominciato a diventare adulto, o forse solo con il momento in cui ho cominciato a capire che diventare adulti aveva a che vedere con decisioni di questo tipo.
Da lì in poi, mi è sembrato che risolvere quello che ancora avevo da risolvere con me stesso, le varie incertezze, gli ultimi tratti di personalità ancora da definire, insomma la tarda adolescenza, potesse essere risolto a partire da questo cardine, la città dove sono nato e cresciuto e da cui per un periodo ero stato assente.
Quel periodo di assenza, durato poco meno di un decennio, un’esperienza (lunga) che troverei sano fosse imposta a chiunque, come un tempo lo era il servizio militare, l’ho anche benedetto, se non altro perché era servito a farmi scoprire che un cardine c’era, o ci poteva essere, e che incardinarsi, pur non essendo l’unica via per cominciare a guardare al futuro, era un buon punto di partenza da cui mettere in ordine il presente: prima vediamo dove abitare, poi tutto il resto, una cosa alla volta, finché tutto non va al suo posto.
So bene, perché l’ho visto fare ai miei amici, che anche procedere lungo l’altra direttrice (prima che lavoro fare, poi tutto il resto, una cosa alla volta, finché tutto non va al suo posto) avrebbe portato alla stabilità e alla maturazione: delle due, al bivio, ho scelto con naturalezza la strada che più mi si confaceva, non ho dovuto starci a pensare.
C’è una cosa però che forse a una parte d’Italia (sul continente direbbe mia nonna) sfugge: per quanto la mia decisione a quel bivio fosse stata presa con naturalezza, e per quanto con altrettanta naturalezza i miei amici imboccarono l’altro ramo, quel bivio c’era, era lì, esisteva, e andava affrontato. Nascere, crescere, e quindi in qualche modo legarsi affettivamente, a una cittadina del profondo sud, comportava (e comporta ancora) il fatto di doversi trovare, a un certo punto della propria vita, a un bivio di fronte al quale operare una scelta, la scelta tra abitare dove si è nati, facendo qualunque lavoro si riesca a trovare, o andare ad abitare altrove, a fare il lavoro che ci si è preparati a fare.
Non credo sia per forza un male. Anzi forse è perfino una scorciatoia verso la maturità. Presto, magari già dal momento in cui deciderai che è meglio andare a fare l’università fuori, sarai obbligato a elaborare una specie di lutto: il lutto per la realizzazione professionale cui forse rinunci rimanendo, o quello per la perdita della tua città, cui rinunci andandotene.