Tenera è la ‘ttunna
L’altra notte ha dormito qua mia cugina, 7 anni.
La mattina, quando ha sentito che anch’io mi ero svegliato, è venuta in camera mia.
Io rimanevo dentro al letto, senza alzarmi. Allora lei si è seduta sullo sgabello ergonomico, voleva parlare: non ci vediamo mai, ha detto, anche se in realtà era piuttosto evidente quanto poco gliene fregasse di parlare con me, e quanto invece le piacesse dondolarsi sullo sgabello.
Giocare coi bambini non mi piace. In realtà non mi piace giocare e basta, io non ho mai giocato a niente, nemmeno quando ero piccolo.
Comunque, siccome mia cugina si dondola in modo assennato, e non c’è bisogno di dirle stai attenta, fai piano, io ero ben disposto sia ad ascoltarla che a lasciarglielo fare.
Coi bambini mi piace solo parlarci, con l’obiettivo di farli innervosire, perché quando si indispettiscono dicono cose strane, che mi fanno ridere. Se invece non mi fanno ridere, mi annoio molto, e se per caso capita quando siamo in macchina li abbandono sul ciglio della strada e riparto sgommando.
Mia cugina dice poche cose da bambina. Dice più che altro quelle cose che dicono i cinquantenni quando vogliono fare conversazione, tipo parliamo un po’, che non ci vediamo mai, noi due e anche se mi sforzo di farla arrabbiare, lei non si arrabbia, o anche se si arrabbia mantiene questo contegno da visita di cortesia.
Con lei il pericolo dell’abbandono lo corro io, perché è molto suadente, e con questo suo conversare ti fa fare quello che decide lei senza che manco te ne accorgi, e quando poi non si diverte più, ti molla e va a irretire qualcun altro.
Quando molla me, di solito va a irretire il gatto (il gatto è un motivo perfino superiore allo sgabello per restare a dormire a casa mia). Il gatto ha molti nomi, ma a lei piace chiamarlo per cognome: Signor De Topis, che poi sarebbe come lo chiamo io, il che la rende ai miei occhi intelligente, assennata, cinquantenne e tutte quelle altre belle cose non da bambini che ho già detto di lei (rivolgersi a un gatto dandogli del lei a sette anni è segno di qualcosa di magnifico, anche se devo ancora capire cosa).
Comunque, siccome non si arrabbia, non si è arrabbiata neanche il giorno in cui ha dormito a casa mia, anche se praticamente l’avevamo truffata, promettendole una cosa che sapevamo non avremmo mai potuto mantenere. La mattina, senza mai mollare lo sgabello e dondolando sia il corpo che la voce, mi ha rimproverato per il raggiro subìto.
La truffa era questa: le avevamo raccontato che qua in Ortigia, centro storico di Siracusa, dieci giorni prima dell’Immacolata passa questa specie di processione con la banda, che si chiama ‘ttunna, cioè notturna. Lei aveva subito detto che voleva venire a dormire a casa nostra per potere partecipare.
Effettivamente le prime volte che la vedi è una processione molto suggestiva. Ci sono questi fedeli (che poi molti non sono neanche tanto fedeli) che a un certo punto, dopo aver vegliato la statua della Madonna in chiesa, verso le 3 di notte passano per il quartiere con la banda, suonando tutti i campanelli e i citofoni in cui si imbattono. Teoricamente ci si dovrebbe vestire, scendere (alcuni lo fanno in pigiama e vestaglia) e unirsi alla processione. Le canzoni che suona la banda non sono canzoni religiose, sono canzoni napoletane, tipo Addo’ sta zazzà, cose così, e vanno cantate stonate, un po’ come si fosse ubriachi, facendo baccano, ogni tanto gridando anche cose in dialetto, per il puro spirito di dare fastidio e svegliare la gente che dorme.
Io in tutta la mia vita ho partecipato solo tre volte, l’ultima l’anno scorso, tanto per vedere se tutto fosse rimasto uguale a prima. È stato bello constatare che è una delle poche tradizioni autentiche sopravvissute in questa città di iloti. Facendo il percorso, mi sono reso conto che il vero motivo per cui anticamente si faceva questa processione era la fame: la banda passa e ripassa ossessivamente per le strade e i vicoli intorno alla Giudecca.
La Giudecca era il quartiere delle putìe, cioè delle botteghe, dei panifici, delle cantine: a ogni passaggio, qualcuno offriva pane caldo, qualche altro vino, uova dure, sarde salate. Per i miei bisnonni, partecipare a questa processione era un’occasione per mangiucchiare: si alzavano dal letto con tutto un altro spirito, nessun fastidio, e anzi aspettando con ansia il passaggio della banda. Quando io ero un bambino di sette anni, invece, cioè nei primi anni Ottanta, la Giudecca era diventato un territorio off limits: ci abitava gente che continuava ad avere fame in un’epoca in cui avere fame non era più considerata una cosa che accomunava tutti i residenti e li spingeva ad alzarsi dal letto in piena notte, ma il tratto distintivo di chi era rimasto indietro, ad abitare nei bassi e vivere di espedienti. Perciò i miei mi consigliavano di fare sempre il giro largo per tornare a casa: la Giudecca era diventata il covo della piccola delinquenza.
Ora è una zona gentrificata, e anche se una malavita un po’ anziana continua ad abitarci, ci abita quasi a uso e consumo di chi visita il posto, tipo specie protetta. Del resto qua è già da un po’ che si è gentrificata anche la lingua: per esempio, il mio quartiere, che sarebbe un’isola, il centro storico della città, ha assunto il suo nome antico di Ortigia, che per quasi un secolo nessuno aveva mai usato. Ancora adesso se dici alle persone molto anziane Ortigia quelli subito ti chiedono: e dov’è? Perché prima questa era Sarausa, cioè Siracusa, e il resto della città era bbuggata, cioè borgata, la Borgata Santa Lucia, dove ci sono sia la chiesa che il sepolcro della patrona.
Bbuggata e Sarausa erano quasi due città separate (erano – e sono – separate veramente, da un ponte: da una parte l’isola, dall’altra la terra ferma) e un bbuggariota, quando andava in Ortigia diceva vado a Siracusa, come avrebbe potuto dirlo un catanese. A me invece, sin dalla prima elementare (1979), insegnarono che Siracusa era nota all’antichità come la Pentapoli, ossia città dei cinque quartieri, e il mio si chiamava Ortigia, cioè isola delle quaglie. All’uscita di scuola giravo intorno a piazza San Giuseppe, la zona in cui ho fatto le elementari, ed effettivamente c’erano un sacco di uccelli. Altri bambini che come me avevano ascoltato la lezione sull’origine del nome Ortigia, si attrezzavano con delle trappole per catturarli e vedere se per caso erano quaglie. Siccome erano solo piccioni, ci rimanevano male e gli strappavano le piume fino a quando non riuscivano più a volare, e poi li davano ai gatti. A maggio, nel giorno di Santa Lucia, venivano lanciate colombe bianche quasi addosso alla statua d’argento portata in processione, e tutti gli abitanti di Siracusa sembravano contenti di questo fatto. Noi delle elementari obiettavamo ai grandi che c’era un errore: ci volevano le quaglie, non le colombe. Per rancore verso l’indifferenza alle nostre proteste filologiche, nel pomeriggio scatenavamo la caccia alle colombe bianche da dare in pasto ai gatti di piazza San Giuseppe.
Comunque la mamma di mia cugina non voleva che la bambina partecipasse alla ‘ttunna: teme sempre pericoli, e questo nonostante sua figlia sia saggia e diffidente al punto di chiamare il mio gatto per cognome. Allora ci siamo messi in combutta e le abbiamo raccontato una frottola, dicendole che questa processione della ‘ttunna sarebbe stata sabato notte, mentre invece c’era già stata, il venerdì. Pensavamo: tanto lei dorme, e quando la mattina si sveglia le diciamo che purtroppo aveva troppo sonno e non ha sentito niente.
Però il fatto non è questo.
Il fatto è che mia cugina, quando io ero ancora a letto e non mi andava di alzarmi, mi ha raccontato cosa ha fatto secondo lei il gatto di notte, e ha detto una cosa tipo: Io mi sono messa a letto e lui se n’è andato. (Lui è il gatto). Basta. S’è messo sul divanetto accanto al letto. Basta. Poi mi ha guardato, ha deciso che si poteva fidare e s’è messo ai piedi del letto. Basta. Stamattina quando facevo colazione s’è messo distante, sul tappetino vicino al balcone e ci siamo guardati. Basta. Poi invece s’è avvicinato…
E ho notato che ha questo modo di usare l’intercalare basta, che è identico a quello di sua madre, e di mia madre, che sono sorelle, e che entrambe hanno preso di sicuro da mia nonna, e che quindi probabilmente usiamo allo stesso modo anche io e mio fratello.
Mia nonna di ottantacinquenne anni e mia cugina di sette dicono basta come a farti credere che il racconto sia finito, che non ci sia più nient’altro. E invece poi la storia ricomincia, c’è ancora qualcosa. A questo basta usato così, pur avendolo sentito da che sono nato, non avevo mai fatto caso prima che mia cugina decidesse che noi due non ci vediamo mai e fosse arrivato il momento di parlare un po’. Forse è successo che l’ha scoperto da poco e allora lo usa in maniera più vistosa, o più frequente, non lo so, non me ne intendo di bambini. So solo che mi ha dato serenità associare la tradizione collettiva della ‘ttunna al nostro intercalare di famiglia, e sentire che eravamo tutti dentro la bocca di Nicoletta, fra quei due denti che le stanno ancora spuntando e fanno una finestra contro cui la s di basta sibila e fruscia allo stesso tempo. In una storia che sembra finita e invece ricomincia sempre.
– Ci sei rimasta male che non ti abbiamo portato alla processione?
– Un po’ sì.
– E perché?
– Perché volevo vedere Ortigia di notte, con tutti che cantavano stonato.
– Ma tu lo sai che vuol dire il nome Ortigia?
– No.
– A scuola non te l’hanno ancora spiegato?
– No.
– Allora non so se è il caso di dirtelo, è una cosa che potrebbe non piacerti.
– Perché?
– Perché a te piacciono molto gli animali, no?
– Sì.
– E non è che poi ti impressioni?
– Tu dimmelo lo stesso.
– Va bene: significa isola dove i gatti mangiano un sacco di piccioni e di colombe perché non c’è l’ombra di una quaglia.
Lei non ha detto più niente. Però qualche ora dopo l’ho sentita che chiedeva:
– Signor De Topis, gradirebbe della cacciagione in umido per pranzo?