Un facile entusiasta
Un sabato pomeriggio del 1984 i miei mi portarono al cinema a vedere La storia infinita.
Potevo avere sì e no dieci anni, però tornando verso casa chiesi a mia madre:
1) Se mi comprava il 45 giri di Limahl
2) Se mi prestava la sua Olivetti Everest.
– Sì, ma che ci devi fare?
– Niente, ci devo scrivere una recensione.
Mia madre se la prese subito con mio padre: gliel’aveva detto che tutte quelle Cipster mi avrebbero fatto male.
Il peggio però arrivò dopo qualche ora, quando li convocai in soggiorno per leggergli quanto avevo scritto.
Nell’illusione di non ferirmi, bisbigliarono tra loro che, sì, forse conoscevo anche il termine recensione, però ne travisavo il significato: quella che avevo scritto io era più che altro una lauda di stampo stilnovista, o al massimo una postulazione di beatitudine per sceneggiatori, attori e regista, artefici di tanto mio godimento.
La cosa si ripeté, con un peggioramento generale dei sintomi, la settimana seguente, quando su un foglio di quaderno a quadretti inserito sul rullo della Everest (ormai era mia), definivo una riduzione per ragazzi de I cavalieri della tavola rotonda acquistata per me da mia nonna all’edicola sotto casa come Opera cruciale per lo sviluppo della civiltà umana, un testo che ciascuno di noi dovrebbe mandare a memoria.
I fogli di quaderno, strappati a mano e con foga, mai dritti dentro alla macchina per scrivere, generavano righe sghembe. A ogni a capo ero costretto a uscire dal rapimento della mia stessa enfasi e incrociare le reazioni del mio uditorio: notavo, così, come al levarsi di ogni mio osanna corrispondesse l’inarcarsi di un sopracciglio sul volto dei miei.
Così il sospetto di infervorarmi un po’ troppo si fece presto certezza, e alle soglie dell’adolescenza, in piedi davanti alle sedie del soggiorno disposte in circolo, dovetti fare atto di contrizione: mi chiamo Mario Fillioley e sono un facile entusiasta.
I facili entusiasmi, me lo dicevano e me lo dicono ancora tutti, sono sintomo di un’indole superficiale, farfallona, scimunita, e spesso anche molesta: il giubilo ci mette un attimo a mutarsi in spirito di proselitismo, e a quel punto, qualunque cosa tu proponga, viene accolta con la stessa euforia con cui si riceve una copia di Torre di guardia la domenica mattina alle sette meno un quarto.
La mia successiva vita da spettatore, lettore e ascoltatore fu dunque una lunga esercitazione nell’arte tantrica del differire i parossismi d’entusiasmo di cui ero preda, o quantomeno in quella di fiutare l’aria come un cirneco, riconoscere il boato che precede l’eruzione ed evacuare i paesini alle pendici del senso critico.
A un certo punto, l’eco fastidiosa della mia razionalità prese domicilio da qualche parte in mezzo ai visceri: «Niente schiamazzi prima delle cinque», diceva l’anziana signora del piano di sotto, quella che se poco poco alzi il volume comincia a battere sul soffitto con la scopa.
Grazie a lei imparai che una volta fattesi le cinque, la voglia di fare schiamazzi era bella che passata, e non era più il caso di offrire libagioni in onore di nessuno.
Il periodo di compassata morigeratezza e relativa serenità condominiale era destinato però a interrompersi per sempre in un pomeriggio dei famosi anni zero: per la precisione il 29 settembre del 2007, giorno della mia iscrizione a Facebook.
Da allora (poco più di un lustro fa, in fondo), sono tornato a essere il bambino altamente infiammabile della Everest, e ho subito cominciato a usare i social network come una specie di roipnol a buon mercato con cui adulterare l’acqua canarina alla vegliarda del piano di sotto: tiè, beviti quest’intruglio e fatti una bella ronfata fino a domani.
Con Facebook, noi facili entusiasti ci siamo visti recapitare in dono una specie di “spargitore di incensi” automatico, uno di quegli annaffiatoi rotanti da giardino: vuoi mostrare agli amici qualcosa che hai letto, visto, ascoltato, e che ora ti brucia come lava nel petto? La piazzi in bacheca e con mezzo clic raggiungi tutti quelli che la tua esaltazione desidera stalkare.
Tanta efficacia doveva per forza avere un prezzo.
E l’effetto collaterale è l’immediatezza con cui ogni tentativo di riflessione naufraga prima ancora di lasciare il porto: leggiamo, ascoltiamo, guardiamo, e subito, senza soluzione di continuità, likiamo e commentiamo.
Il Like su Facebook va oltre il tradizionale commento a caldo che ci si scambia all’accendersi delle luci in sala col vicino di sedia o col fan sfegatato a fine concerto, perché spesso lo si appone già durante la fruizione di ciò che viene condiviso. E ancora più spesso lo si appone sulla fiducia: Guarda! Ciccio ha appena postato uno spezzone di Palombella rossa, gran film, non ricordo che scena sia, e nemmeno capisco che attinenza abbia con lo status di Ciccio, ma di sicuro apprezzo Nanni Moretti, fammi cliccare Mi piace, non ho neanche bisogno di rivederlo.
Stessa cosa per quanto riguarda i commenti. Tra facili entusiasti, li si scrive soprattutto per rassicurarci a vicenda, e sono quasi tutti riconducibili a un unico ceppo di significati: bravo, sei andato a segno, mi hai colpito e pure affondato, adesso sì che capisco come mai io e te siamo amici su Facebook.
Commenti come Definitivo o Epic Win chiosano quei post che gli amici ci depositano in bacheca apposta per produrre in noi quello stato emotivo di plauso ed esaltazione che adesso tentiamo di restituirgli con il nostro commento, esaltato e a sua volta esaltante.
La vecchiazza del piano di sotto dorme stordita dal cocktail di barbiturici che le abbiamo rifilato, e i magnificat sono liberi di risuonare in dodecafonia. Nessun deterrente, nessun richiamo all’ordine, nessuna scopa che picchia sul soffitto.
In confronto, il me decenne che aspettava di tornare a casa per mettersi a fare Snoopy sulla Everest era un bramino col controllo totale sulle proprie pulsioni.
Ciò vale sia quando si riceve la proposta, sia quando la si effettua.
Perché al di là dell’imbarazzo che provoca il vedersi commentare laudativamente un proprio post (ognuno elabora una sua strategia di sopravvivenza: autoironia a profusione, emoticon con faccine che si commuovono, contro-ringraziamenti infiniti che somigliano a quegli sketch in cui un occidentale e un giapponese non smettono più di inchinarsi, restituzione di Like, pubblici tag a mò di attore che brandendo il premio lo dedica al suo pubblico ecc.) il punto è che siamo di fronte a una razionalità assopita, in nulla differente da quella del grillino che inveisce contro la ka$ta schiumando dalla tastiera.
Dotandosi per tempo di strumenti come il ban (moderno ostracismo) e il nascondi (misura analoga al divieto di avvicinarsi oltre tot metri), Facebook si sforza di non diventare il luogo dell’insulto, però non si adopera affatto per evitare di diventare quello del salamelecco, della cerimonia e della piaggeria.
Ma il fatto non è tanto questo.
Il fatto è che inflazionare i superlativi accorcia le distanze tra gli opposti: togliere dalla scala tutti i pioli che separano un capolavoro (o epic win) da una cacata (o epic fail) potrebbe condurci presto alla notte buia in cui tutti i gatti, le mucche e i sacchi della spazzatura sono neri, e forse a quel punto accadrà che i termini attualmente adoperati per descrivere stima, diletto e apprezzamento trascolorino nel loro significato opposto.
Hölderlin, poeta tedesco vissuto a cavallo tra settecento e ottocento, quando intuì di stare varcando la soglia della follia, si rinchiuse volontariamente dentro la casa di un falegname: anche lui voleva un inquilino del piano di sotto che lo riconducesse a più miti consigli a colpi di ramazza sul tetto. Visse così il resto dei suoi giorni in una torre, contigua ma separata dal resto dell’abitazione, scrivendo poesie su personaggi minori della classicità: la sua lista di Persone che potresti conoscere era popolata di contatti con nomi tipo Iperione e Bellarmino, e lui navigava perduto in questo suo Facebook parnasiano. Le poche parole che proferiva – tra sé e sé, e a mezza voce, più o meno come facciamo noi davanti al display quando incocciamo in qualcosa che ci rapisce- erano inni al panorama agreste che scorgeva affacciandosi dalla finestra: provava una sconfinata ammirazione per la natura, e tutto per lui era prodigio, portento, miracolo, forse addirittura capolavoro. Ogni tanto era costretto a ricevere in visita notabili della città, editori dei suoi poemi, intellettuali che chiedevano un abboccamento: tutte persone che lui considerava indistintamente dei grandissimi scocciatori.
Pare che tanto più intendesse respingerli, quanto più si profondesse in formule di cortesia, inventando titoli onorifici sempre più altisonanti per riverire quelli che in realtà considerava ospiti sgraditi: e giù di illustrissimo e di vostra maestà.
Chissà allora che Facebook non diventi la nostra torre del falegname, tramutandoci piano piano tutti in poeti bizzosi che per mandarsi reciprocamente a quel paese si diranno cose come “Capolavoro!” o “LOL!”.