Kepra
Sono seduta al tavolo di cucina con la risma sulle ginocchia.
Il tavolo è ingombro di spesa, perciò tiro fuori un foglio alla volta e lo appoggio nello spazio libero tra le buste.
Ogni riga è piena di errori di battitura, o di ortografia o di ripetizioni: non faccio in tempo a rimettere la matita dietro l’orecchio che subito devo riprenderla in mano, un movimento continuo che mi distrarrebbe dalla storia, se mai ce ne fosse una.
A distrarmi è lui, in effetti, l’autore in persona: se ne sta di là, nell’altra stanza, ad aspettare che io abbia finito di leggere e correggere, e nel frattempo mi parla a ruota libera, rallentandomi nella lettura.
L’altra stanza adesso si chiama “studio”, ed è lontana dalla cucina, metri e metri di corridoio, non capisco niente di cosa dice, sento solo che il tono di voce è alto: potrebbero essere rimproveri, scatti di nervi, oppure le urla potrebbero essere un tentativo di farsi sentire da me senza doversi alzare dalla scrivania.
Papà scrive.
Scrive queste sue memorie a getto continuo. Ha deciso di scrivere di sé tramite i ricordi che ha dei suoi familiari. Sono alla seconda pagina e sono già comparsi tre zii e due cugini. Tutto è sotto forma di aneddoto, e tutto è introdotto dalla formula mi ricordo quella volta che… oltre la quale non gli interessa andare.
Papà non sta bene, e sa anche di non stare bene.
Si è ammalato di scrittura. Gli è venuta la grafomania: scrive e stampa, stampa e scrive.
Non corregge, non lima, non smussa e non cancella mai niente: aggiunge, ammassa, ammucchia, al massimo emenda un ricordo sbiadito con uno più preciso. Non è colpa sua. La colpa è del Kepra.
Il Kepra è un farmaco che si dà agli epilettici. Però mio padre non è epilettico. E non è neanche malato, a parte la grafomania.
Mio padre è guarito da una malattia. Per guarire ha fatto un’operazione al cervello. E chi si opera al cervello prende i farmaci antiepilettici anche se non è epilettico.
Alcuni, dopo un po’ che prendono questi farmaci, finiscono per diventare epilettici anche se prima non lo erano: a quel punto bisogna che li prendano per non avere crisi di epilessia.
Papà, da quando prende il Kepra, scrive.
Detta così sembra la pillola di Hemingway, ma non è la stessa cosa: mio padre scrive nel senso di una scrittura automatica, senza nessuna elaborazione dietro, senza un progetto, una trama, una struttura, anche se il Kepra lo ha convinto che la trama e il progetto ci sono.
Papà scrive e accumula fogli, risme di fogli, che mi sottopone alle dodici meno un quarto del sabato mattina, quando c’è da friggere la caponatina.
Nonne, nonni, bisnonni, trisavoli, cugini di primo e secondo grado, cugini del Venezuela, ma soprattutto zii, zii di Sicilia, zii d’Australia, zii d’America: scrive di loro.
Io, sua figlia, non compaio mai. Nemmeno mia madre, nemmeno i suoi nipoti. La sua famiglia in senso stretto, tra le sue pagine non ci finisce neanche per sbaglio.
Io torno a esistere solo quando mi dà i fogli da leggere. Mi ha nominata sua prima lettrice perché mi ritiene capace di un parere competente. Ma io non ho mai scritto per mestiere, ogni tanto un articolo su un quotidiano locale, un paio di racconti su qualche rivista, e comunque non lo faccio più da anni.
Insegno educazione fisica in un istituto professionale di Priolo. E sono anche maestra di sport, atletica leggera: alleno ragazzini delle medie che ogni tanto vincono i giochi della gioventù regionali. Una volta uno ha anche vinto i campionati nazionali allievi. Così ogni tre mesi passo un mese a Formia in ritiro con loro. Mi occupo della prima fase della preparazione, quella che in gergo si dice “di quantità”: alla qualità, alle rifiniture, pensano altri, più bravi di me.
Formia è lontana dalla Sicilia, e la FIDAL è avara. Questo significa valige cariche di conserve e scompartimenti a sei cuccette. Significa quattro mesi l’anno fuori da casa e dentro al monolocale di un residence.
I miei figli vengono con me, la FIDAL gli spesa quattro training camp all’anno, e li facciamo coincidere con le mie missioni e con i periodi di vacanza da scuola. La piccola ha dodici anni ed è già un’ostacolista a livello regionale, il grande ne ha quindici e lancia il giavellotto nei meeting di categoria. Io mi occupo solo di fondo e mezzo fondo: non li alleno io. Sarà per questo che vincono così spesso. Abbiamo già una “stanza delle medaglie”.
– Allora? Hai finito di leggere?
– Sono solo alla seconda pagina, papà.
– La seconda? Cioè mentre tu ne leggevi due io ne ho scritte sedici!
Mi molla altre sedici pagine direttamente in grembo. Esce dalla cucina e va verso lo studio. Poi torna indietro:
– E come sono le due pagine che hai letto?
– È di nuovo la storia dello zio Binno.
– Ah, sì? Di nuovo? In che senso di nuovo?
– Nel senso che parli ancora dello zio Binno.
– È la storia dello zio Binno, sì, ma quale?
– Non so, ce ne sono tante?
– È la storia di quando lo zio Binno ha violentato una capra nelle campagne di Testa dell’Acqua?
– Ossignore, papà!
– O è la storia di quando lo zio Binno ha preso la liquidazione ed è scappato via di casa con una buttana? Lo sapevi che quando poi l’hanno ritrovato s’era già mangiato tutti i soldi?
– No, non lo sapevo, ma non mi pare il caso di…
– O forse è la storia di quando lo zio Binno e tuo nonno si sono ubriacati alla prima della Lucia di Lammermoor al teatro Bellini, e si sono messi a cantare Se quel guerrier io fossi in bilico sul parapetto di un palco dell’ultimo ordine?
– È l’Aida.
– Cosa?
– Se quel guerrier io fossi: è l’Aida, non la Lucia di Lammermoor.
– Certo, è chiaro, infatti è questo l’aneddoto: cantarono un’aria dell’Aida alla prima della Lucia di Lammermoor, vuoi saperlo meglio di me?
– Papà ascolta, episodi del genere non andrebbero riferiti a nessuno, figuriamoci se andrebbero scritti.
– E perché mai?
– I tuoi cugini, per esempio, i figli dello zio Binno: potrebbero non gradire certe rivelazioni.
– Le hanno già lette, e hanno anche letto subito, mica lenti come te.
– Non puoi scrivere tutto quello che ti salta in mente.
– E perché mai?
– La scrittura è anche reticenza.
– Quanto sei pavida.
– Volevi dire reticente.
– Volevo dire pavida.
– Questi tuoi brogliacci sono da bruciare e basta. Prima o poi ci causeranno problemi in famiglia.
– Sai perché non sei riuscita a diventare una scrittrice?
– Perché non mi interessava. Scrivevo solo per hobby.
– Scrivevi solo per hobby perché sei pavida.
– Il tuo si chiama coraggio, invece?
– Certo. Sennò come si chiama?
– Perdita dei freni inibitori si chiama.
– La tua invece si chiama invidia.
– Invidia di che?
– Di me che scrivo.
– Ma quando mai.
– Ti chiudevi nel mio studio per ore.
– Era camera mia, una volta.
– Ora è il mio studio.
– E allora visto che è uno studio usalo per studiare la scrittura, imparala.
– Non ho niente da imparare. Sei tu che hai sempre voglia di insegnare tutto a tutti. Ti metti là al tavolo di cucina, con la matita dietro l’orecchio, e al posto di leggere, correggi.
– Correggo perché c’è da correggere.
– Cosa vuoi insegnare, poi? E a chi? Volevi fare la scrittrice e invece insegni educazione fisica ai bisonti, nelle praterie.
– Insegno ai ragazzi, nelle scuole.
– Agli ungulati, nelle stalle.
– Ungulati è una parola da scrittore. Comunque io alleno dei campioni, a Formia. Virgulti, giovani promesse, tra cui i tuoi nipoti.
– Virgulti è una parola da scrittrice. E poi chi se ne frega dei virgulti? A te interessava scrivere. E invece alleni gli gnu, nella steppa.
– Forse dovresti allenarti per una maratona, sai? Molte persone della tua età lo fanno.
– Una maratona?
– A livello amatoriale, sì. Ti darebbe disciplina, ti aiuterebbe a scrivere meglio, lo dicono tutti i grandi autori. E poi potrei prepararti io.
– Tu? Tu vuoi dire a me come si prepara una maratona? Io da giovane correvo le diecimila, te lo sei dimenticato?
– Ne hai corsa solo una, papà.
– Ero una lepre, da chi credi abbiano preso i miei nipoti?
– Da te, hanno preso da te, va bene. Ma hai corso solo una gara, ai tempi del liceo, e senza neanche allenarti: vedi, il punto è proprio la preparazione, lo spirito di sacrificio che…
– Non avevo bisogno di allenarmi. Ero un fenomeno. Tutti in piedi ad applaudirmi, terzo classificato, così, senza sforzo. Ero un talento, a che mi serviva allenarmi? Avrei dovuto fare l’atleta. E tu avresti dovuto scrivere. Eri brava a scrivere. A correre fai schifo.
– Non faccio affatto schifo, ho tanto di diploma di maestra di sport rilasciato dal CONI e un incarico quadriennale presso il centro FIDAL di Formia.
– Come atleta non sei mai andata oltre le provinciali. Ma da grande ti sei fissata con la corsa.
– E tu con la scrittura.
– È colpa del farmaco.
– Lo so.
– Dovremmo cambiarlo.
– L’abbiamo già fatto.
– Me lo ricordo
– Hai venduto il garage per comprare due asini e un pappagallo tropicale.
– Meglio la scrittura.
– Molto meglio. Comunque quando scrivi dovresti immaginare di allenarti per una maratona…
– Sai chi mi fece avvicinare alla corsa?
– Sì che lo so, ma io stavo cercando di spiegarti che…
– Lo zio Umberto. Ti ho mai parlato dello zio Umberto?
– Mille volte, però adesso…
– Lo zio Umberto era velocissimo, e correva con delle scarpe di cuoio duro, tutte incartapecorite.
– Certo, le scarpe di cuoio, ma…
– Eravamo nel dopoguerra, e quelle scarpe avevano addirittura un tacco di legno alto così.
– Papà, è tardi. C’è da preparare la caponatina, adesso tornano mamma e i ragazzi dal mare e noi non abbiamo neanche cominciato a spacchettare la spesa.
– Lo zio Umberto correva leggero come una piuma, non ce n’era per nessuno. E aveva due macigni ai piedi: pensa cosa avrebbe fatto con un paio di scarpe decenti.
– Non so se sono più stufa di ascoltarti o di leggerti.
– Quando la fiaccola olimpica passò da Siracusa, indovina chi la tenne in mano? Da corso Gelone fino alla Marina, chi fu il tedoforo?
– Cuciniamo, ti va?
– Lo zio Umberto fu il tedoforo più elegante che la Sicilia orientale ricordi.
– Mi dai una mano a tagliare le melanzane?
– Non posso, devo andare di là.
– A fare che?
– A scrivere la storia dello zio Umberto.
– L’hai già scritta. È nella risma che mi hai dato sabato scorso.
– Allora scriverò quella dello zio Mingo.
– Chi è lo zio Mingo?
– Un tuo antenato abruzzese.
– Abbiamo antenati abruzzesi?
– Uno solo. Lo zio Mingo.
– La storia dello zio Mingo non può aspettare fino a dopo pranzo?
– Lo zio Mingo era di una forza spaventosa. Era capace di prendere un maiale per le corna e caricarselo sopra le spalle.
– I maiali non hanno le corna, papà.
– Una volta gli chiesi: “Zio Mingo cosa ti rende così forte?”. Lo zio Mingo mi sollevò con una mano, mi tenne in alto e disse: “Olio d’oliva”.
Me ne sto in cucina a tagliare le melanzane e i peperoni. Faccio tutto il rumore che posso, sbatto il coltello forte sul tagliere per non sentire lui che parla e picchia sulla tastiera del mio vecchio pc, picchia sulla tastiera del mio vecchio pc e parla.
Mentre le verdure friggono, mi siedo sulla sedia e tiro fuori un altro foglio dalla risma. Stavolta tocca al cugino Carmine.
Il cugino Carmine era orfano di padre e di madre, gli era rimasta una sola zia, la zia Wanda. La zia Wanda era poverissima e aveva già sette figli, per cui quando il cugino Carmine compì sei anni, la zia Wanda lo chiuse nel collegio dei padri maristi a Sortino. Il cugino Carmine però era scaltro. Una mattina all’alba aspettò che arrivasse il ricottaro con la motocicletta, e mentre quello consegnava il carico ai preti, tolse tutte le cavagne dal portapacchi e si nascose sotto al telone. Il ricottaro accese la moto e ripartì con il cugino Carmine al posto delle cavagne. Arrivato a Siracusa, quando alzò il telone per consegnare il secondo carico, sotto ci trovò un bambino di sei anni.
Allora lo portò dalla zia Wanda e le disse: signora mia, il picciriddo per scappare dal collegio s’è ammucciato sotto al telone e quando sono arrivato a Siracusa m’ha fatto pigliare un maligno. Significa che dai padri maristi non ci vuole stare, perciò o ve lo riprendete voi o me lo porto a casa e me lo cresco io.
La zia Wanda se lo mangiò di baci e disse che se lo sarebbe tenuto in casa per sempre. Però era troppo povera per ripagare al ricottaro le cavagne, così il ricottaro pretese come compenso che il cugino Carmine andasse a lavorare per lui, che non aveva figli. Quando imparò il mestiere, il cugino Carmine rilevò l’attività e dopo un po’ mise su un caseificio con cui sfamò la zia Wanda e i suoi sette figli, e che poi lasciò in eredità ai suoi nipoti.
Wanda non è nome che si addica a una poveraccia. Quando verrà a sedersi a tavola, dirò a papà che non sempre la verità è verosimile.
Carmine invece va bene, è il nome di uno che usa una moto da ricottaro come cavallo di Troia.
È una bella storia, tra tante finalmente ne ha tirata fuori una decente.
Certo, i personaggi sono ancora da sbozzare, la trama è tutta da scrivere, ci sarebbe da lavorare fino allo sfinimento, su questo racconto. Invece lui neanche il tempo di pulirsi la bocca col tovagliolo e sarà di nuovo dentro lo studio a scrivere dello zio Ennio, quello che prima fece i milioni intrallazzando carichi di caffè da Malta e poi li perse tutti in una mano di zecchinetta.
Sono le due e mezza, a momenti i ragazzi torneranno dal mare insieme a mia madre e io ho esagerato con lo zucchero. Devo aggiustarla di sale, aggiungere altro aceto e allungare la cottura: bisogna che venga buona per forza perché è l’ultima di questa estate, e i ragazzi vorranno metterla dentro alle bocce. Lo facciamo sempre, così ogni tanto, in inverno, possiamo fingere di essere qui dai nonni e trasgredire la dieta.
Tra poco sarà autunno, e all’ora in cui oggi ci alzeremo da tavola, a Formia sarà già buio.
Al centro FIDAL si mangia a mezzogiorno in punto. Poi c’è il riposo, e poi i ragazzi tornano ad allenarsi fino alle otto di sera. Io alle cinque ho già finito di lavorare. Le ultime ore del pomeriggio, dentro al monolocale, sono lente e buie. Me ne restano tre, prima della cena: ho tutto il tempo di farmi prendere prima dalla noia e poi dalla malinconia.
Potrei dedicarmi io a questa storia. Così, senza pretese, giusto come passatempo. Potrei provare a darle un’ambientazione, aggiungere dei dettagli. Se uscisse fuori bene potrei proporla a una rivista. Ci metterei un sacco di tempo, visto come sono arrugginita. Chissà dov’è che tiene il Kepra papà.