Libri e librerie che non ci sono più
Da ragazzo ho fatto il commesso in due librerie diverse, di due diverse città: una molto meridionale, la mia, e una del centro nord, quella dove frequentavo l’università.
Erano altri tempi, circa quindici anni fa, ed erano anche altre librerie.
In quella del centro nord, filiale dell’allora più importante catena italiana, si tendeva ad avere quanti più titoli disponibili a scaffale.
La cosa comportava l’assunzione di parecchio personale, che più che altro svolgeva lavori di facchinaggio e sguatteria. I ritmi di rotazione richiedevano sprezzo del pericolo: io, per dire, ingoiavo un sacco di scotch, ma non nel senso del liquore, nel senso del nastro isolante, perché per sbrigarmi a chiudere i pacchi delle rese o ad aprire quelli degli arrivi, usavo i denti, e una volta ho avuto proprio il mal di pancia, con la nausea, i sudori freddi, il cacarino e tutto quanto, perché la colla che c’era sopra la pellicola mi aveva fatto venire l’intossico. Però vabbe’, non c’entra.
In quella molto meridionale, cioè della città in cui sono nato e cresciuto e ancora risiedo, si tendeva a stabilire un rapporto personale col cliente, e ci volevano capacità di ascolto e doti divinatorie.
Per esempio mi ricordo il signor Boscarino, che era solito chiedere i libri non per titolo, autore o argomento, ma tramite una specie di quiz in cui ti raccontava per sommi capi una trama, spesso ibridandola con i suoi ricordi della guerra di trincea, o sovrapponendogli qualche scena d’antologia dell’Orlando furioso, oppure dell’Eneide, oppure ancora innestando le scene dell’Orlando Furioso sui personaggi dell’Eneide, per poi collocarli nel fantomatico thriller americano che stava cercando e di cui proprio non ricordava il titolo.
Comunque, quale che fosse il libro, noi, nella libreria molto meridionale dove lavoravo io, non ce l’avevamo.
Lo dovevamo ordinare.
In pratica al lavoro di facchinaggio e sguatteria si sommava quello di persuasore occulto: bisognava blandire i vari signor Boscarino nella speranza che decidessero di ordinare quel libro da noi e solo da noi, rinunciando a cercarlo nelle altre librerie della città, e magari farsi pure lasciare un acconto.
Indovinare il titolo era fondamentale, ma ancora più fondamentale era non rivelarlo all’interessato. Perciò quando sentivo di avere in tasca la soluzione mi illuminavo come il Sapientino Clementoni e dicevo:
– Signor Boscarino, ho capito qual è!
– Bravo!
– Grazie!
– E qual è?
– Non glielo posso dire.
– Ma come?
– Lei si fidi di me: lasci qui tremila lire e venga a prenderselo mercoledì pomeriggio.
– Almeno l’autore me lo dici?
– Si lasci servire, signor Boscarino: mercoledì glielo faccio trovare direttamente alla cassa.
– Ma..
– Venga da solo, ha capito? E metta i contanti in banconote di piccolo taglio dentro a una valigetta nera. Niente scherzi, altrimenti gli mozzo le ultime cinquanta pagine.
Però la cosa importante non è nemmeno questa.
Ieri sera sono andato, insieme a tanti altri siracusani, a prendere commiato dal Biblios Café, o almeno dal Biblios Café così come l’ho conosciuto io, perché Luisa Fiandaca, dopo anni di tenace impegno per portare in città scrittori che altrimenti mai vi avrebbero messo piede, ha deciso di venderlo.
C’era anche Angelo Orlando Meloni, scrittore che spesso mi fa dono del suo acume, e insomma abbiamo cominciato a parlare di librerie, e allora ho cercato di ricordarmi quale fosse il libro che si vendeva più spesso in quei due negozi dove ho lavorato tra la fine degli anni Novanta e i primissimi anni Zero.
Frammenti di memoria hanno cominciato ad attraversarmi la corteccia cerebrale, nulla che però superasse il singolo episodio, tipo: mi ricordo che una volta ho venduto tre copie di Anna Karenina a un signore molto distinto che subito dopo averle acquistate ha staccato davanti ai miei occhi le pagine una alla volta e se l’è mangiate tutte, ruttando regolarmente ogni cento*.
In cima alla classifica si è però stagliato il dolmen di un vero long seller, e di questo sono sicuro di avere venduto personalmente centinaia di copie in meno di due anni e mezzo.
In entrambi i negozi, veniva venduto e subito rifornito. E di nuovo, puntualmente, venduto. E di nuovo rifornito. Il ciclo virtuoso era fonte di continua meraviglia, per me e per i gestori delle due librerie, anche perché il libro in oggetto aveva un costo molto elevato, specie per l’epoca: ottantotto mila lire.
Certo, era di grande formato, ricco di illustrazioni, e la carta era di un’ottima grammatura, un bell’oggetto, senza dubbio, però minchia: ottantotto mila lire.
E invece la gente era tutta contenta, lo tirava fuori dallo scaffale, se lo rigirava tra le mani, gli veniva un sorriso a sofficino e correva alla cassa con la faccia entusiasta di chi ha trovato esattamente quello che stava cercando: IL GRANDE LIBRO DEL FAI DA TE.
Sulla copertina c’erano immagini di seghe circolari, trapani elettrici, mazzuoli, pialle, carta vetrata, inserite dentro dei riquadri verdi, su un fondo giallo paglierino. Il dorso aveva la scritta del titolo in un rosso molto acceso, e siccome il formato era mastodontico, non c’era neanche bisogno di metterlo sull’espositore, spiccava già dallo scaffale, esercitando un’attrazione magnetica.
Ora, non dico dal punto di vista dell’editore in crisi, perché non c’entra, ma dal punto di vista di un libraio che chiude, questa cosa un po’ deve pesare per forza. Voglio dire: quanto incidevano i libri di questo tipo sul fatturato di una libreria? E quanto incidevano invece i romanzi e le belle lettere in generale? Può darsi che coi ricavi di un settore si riuscissero a compensare le perdite di un altro?
I tutorial su youtube, e in generale l’avvento della rete, hanno spazzato via un mercato librario che io, all’epoca mia, ricordo consistente: la manualistica occupava un intero soppalco della libreria molto meridionale, e una stanza di medie dimensioni di quella del centro nord. Adesso, per verifica, ho visitato una libreria di Siracusa: solo uno scaffale e mezzo, e quasi per intero occupato da testi che hanno a che vedere coi concorsi in polizia.
Non ho mai avuto accesso alla stanza dei bottoni di quelle due librerie, però immagino che soprattutto in quella del centro nord (che, come da manuale, ruotava il proprio monte merci di tre volte in un anno) quel settore dovesse giocare un ruolo fondamentale, soprattutto per consentire di avere a scaffale, pronti per chi ne facesse richiesta, tutti gli altri libri: romanzi belli ma poco letti, autori di culto, piccoli editori di qualità, magari anche poesia o letteratura sperimentale.
Probabilmente io e Angelo Orlando Meloni ieri sera ci siamo sbagliati, ed è tutto frutto della nostra nostalgica immaginazione (siamo entrambi fortunati possessori di una copia de Il grande libro del fai da te) oppure del nostro affetto per Luisa e per il Biblios café, oppure ancora è stata solo colpa della sete che mettevano i salatini e della birra bella ghiacciata, però, che un tempo le librerie avessero come clienti anche persone che – non sapendo bene come fare qualcosa- si rivolgevano al libro come a un istruttore, e vivevano la lettura come l’apprendistato di un sapere pratico, e la libreria come una bottega, c’è venuto. E forse andrebbe tenuto di conto che questa gente adesso non ha più nessun motivo di mettere piede dentro un negozio, mentre ne ha molti per cliccare su google e guardare un filmato o leggere un blog che gli insegna come usare il flex per dividere in due una piastrella di grès porcellanato, se è il caso perfino con tanto di sottotitoli in ugrofinnico, e di sicuro in totale gratuità.
La prima obiezione che c’è venuta in mente è che i proventi di quel reparto siano stati sostituiti dalla cartoleria, dai gadget, dai pupazzetti che ingombrano le zone più vicine alla cassa e magari anche dai cosiddetti libroidi. Però no, non ci è sembrata una compensazione efficace.
Perché, forse è meglio ripeterlo: Il grande libro del fai da te costava ottantotto mila lire.
* Per altri piacevolissimi oltraggi inferti ad Anna Karenina dentro le librerie, cfr Daniele Zito, La solitudine di un riporto, Hacca edizioni, 2013.