Il dono del freddo, in un romanzo
A William Stoner, protagonista dell’omonimo romanzo di John Williams (Fazi Editore, 2012, traduzione di Stefano Tummolini), capita diverse volte nel corso del libro di sentire il corpo ritemprato dal freddo. Vive in un posto dove nevica spesso, e su quasi ogni pagina infuria un clima ventoso e invernale. I pochi raggi di sole sono quasi sempre gli ultimi del pomeriggio, creano coni d’ombra e non sembrano riscaldare l’aria.
L’estate arriverà solo sul finire del libro, e avrà a che vedere prima con una condizione fisica di prostrazione, l’unica malattia che Stoner sperimenta in quarantacinque anni di ottima salute:
Quell’estate non insegnò, e per la prima volta nella sua vita, si ammalò. Fu una febbre forte e d’origine oscura che durò solo una settimana ma lo prosciugò d’ogni forza. Divenne molto magro, e come conseguenza riportò una perdita parziale dell’udito. Per l’intera estate rimase così debole e avvilito che gli bastava fare pochi scalini per sentirsi esausto.
E in seguito, nel capitolo conclusivo, annuncerà la fine dei freddi e la morte del protagonista:
Era primavera inoltrata o inizio estate, ma forse più inizio estate, a giudicare dall’aspetto delle cose. Le foglie del grande olmo nel cortile sul retro erano ricche e lucenti e l’ombra dell’albero era così fresca che gli sembrava di non riconoscerla. L’aria aveva uno spessore, una pesantezza che riempiva gli odori dolci dell’erba, delle foglie e dei fiori, mescolandoli e tenendoli sospesi. Respirò di nuovo di nuovo, profondamente. Sentì il rantolo del suo respiro e la dolcezza dell’estate che gli si raccoglieva nei polmoni.
Per tutto il resto del libro, il tepore è riservato solo agli interni: pochi ambienti, sempre identici, in cui Stoner trascorre la sua vita monotona.
A ogni irrompere del gelo dagli infissi di una di queste stanze è invece legato un piccolo momento epifanico, con il protagonista che afferra per intuito qualcosa di se stesso o di chi gli è accanto.
Il freddo tagliente di quella giornata di fine autunno gli trapassava i vestiti. Si guardò intorno, scorgendo i rami nodosi degli alberi sghembi contro il cielo pallido. Alcuni studenti, che attraversavano di corsa il cortile diretti alle loro classi, gli sfilarono accanto sfiorandolo: sentì il mormorio delle loro voci e il ticchettio dei tacchi sull’acciottolato, e vide i loro visi arrossati dal freddo, la fronte bassa per ripararsi dal vento. Li osservò con curiosità, come se non li avesse mai visti prima, e si sentì a un tempo molto vicino e molto distante da loro. […]
Stoner è di umili origini, la cultura, lo studio della letteratura inglese, sono stati una conquista faticosa. Nell’incipit del libro è un ragazzo di campagna alto e dinoccolato, ma con le spalle che presto gli si curvano verso la terra, un contadino mancato per un soffio. Il vento che spira da dietro le montagne e colpisce a tradimento gli è familiare, le ostilità del clima le ha vissute sulla pelle nei primi anni di vita, quelli dell’infanzia e dell’adolescenza, trascorsi a lavorare come un mulo insieme al padre, all’aria aperta, nei campi aridi intorno alla fattoria di famiglia. In qualche modo, doloroso ma piacevole, uno spiffero improvviso gli restituisce il brivido del mondo esterno, quello da cui aveva inteso scientemente separarsi quando decise di iscriversi al corso di laurea in lettere.
Il suo migliore amico, David Masters, un pragmatista gioviale e allo stesso tempo malinconico, lo illumina subito sulla vera natura dell’istituzione universitaria cui entrambi si sono consacrati: un rifugio per inetti, un luogo dove chi non è adatto al mondo può crearsene uno suo, e trovare riparo alle proprie paure.
«Siamo tutti miserabili buffoni, e siamo al freddo».
«Re Lear», disse serio Stoner.
«Atto terzo, scena quarta», aggiunse Masters. «E così la provvidenza, o la società, o il fato, comunque vogliate chiamarlo, ha costruito per noi questo rifugio, che ci protegge dai venti di tempesta. È per noi che esiste l’università, per i diseredati del mondo […]».
Quando gli viene conferito l’incarico di docente, la moglie dà un ricevimento per inaugurare la bella casa, antica e in legno, che senza il prestito del suocero non avrebbero potuto permettersi. Lo vediamo scortare fuori il piccolo gruppo di ospiti che aveva preso parte al ricevimento, e attardarsi sulla porta d’ingresso, godendosi il piacere del vento che gli soffia addosso. Un istante dopo, realizza che il suo matrimonio è votato al fallimento:
Accompagnò gli ospiti all’uscita e si trattenne qualche momento sulla porta, indugiando nel guardarli mentre scendevano le scale e uscivano dal cono di luce della veranda. L’aria gelida lo circondò, stringendolo in una morsa, fece un respiro profondo e il freddo tagliente lo ritemprò. Riluttante, chiuse la porta, e si voltò per rientrare. Il soggiorno era vuoto. Edith era già andata di sopra.
Qualche decina di pagine prima, ha conosciuto Edith a una festa. Lei sta per andare via, fuori c’è già una carrozza ad attenderla, ma Stoner sente che presto si legherà a lei per la vita. Allora la segue nel foyer, e mentre la aiuta a infilare il cappotto, le chiede due volte il permesso di poterle far visita l’indomani, senza ricevere risposta:
Lei aprì la porta e rimase immobile per un lungo istante: l’aria gelida sferzava l’ingresso, lambendo il volto accaldato di Stoner. Alla fine si voltò a guardarlo, battendo più volte le palpebre. I suoi occhi chiari erano molto lucidi, quasi sfrontati. Alla fine annuì e disse: «Sì. Potete farmi visita». Ma non sorrise.
William Stoner ama guardare fuori dalla finestra del suo ufficio all’università. Capita che ne spalanchi gli stipiti senza neanche accorgersene, per istinto, attirato dall’aria che frizza quando il cortile del campus è soffice di neve, oppure dalla fragranza dell’erba dopo la pioggia. In uno dei capitoli centrali, sta attraversando un periodo di difficoltà sul lavoro a causa di un feroce contrasto col direttore del suo dipartimento. La vista della neve, unita alla sensazione del freddo lo inebriano al punto da indurgli una specie di estasi. Un fenomeno che si ripete per giorni, quasi spaventandolo:
Una sera, tardi, dopo l’ultima lezione, tornò nel suo ufficio e si sedette alla scrivania per cercare di leggere un po’. Era inverno e durante il giorno era caduta un po’ di neve, quindi l’esterno era avvolto da un manto soffice e bianco. L’ufficio era surriscaldato. Aprì la finestra accanto alla scrivania per fare entrare un po’ d’aria fresca nella stanza chiusa. Respirò profondamente e lasciò che i suoi occhi vagassero sulla distesa imbiancata del campus. D’istinto spense la lampada sulla scrivania e si sedette nella calda oscurità dell’ufficio. L’aria fredda gli riempì i polmoni e si protese verso la finestra aperta. Ascoltò il silenzio di quella notte d’inverno e in qualche modo gli parve di sentire i suoni che venivano assorbiti dal delicato intrico cellulare della neve. Nulla si muoveva sopra quel bianco. Era una scena di morte, che sembrava attrarlo a sé, risucchiando la sua coscienza nello stesso modo in cui aspirava i suoni dall’aria, seppellendoli sotto quel candore gelido e soffice. Si sentì tirare verso quel bianco che si estendeva a perdita d’occhio e che era parte dell’oscurità da cui risplendeva, e da quel cielo chiaro e senza nubi, che non aveva altezza né profondità. Per un istante gli parve di uscire dal suo corpo che sedeva immobile davanti alla finestra. Mentre si sentiva scivolare via, tutto – la distesa bianca, gli alberi, le alte colonne, la notte, le stelle lontane – gli sembrava incredibilmente piccolo e remoto, come se svanisse a poco a poco nel nulla. Poi, dietro di lui, udì il clangore di un termosifone. Si mosse e la scena tornò a essere quella di prima. Con sollievo, e con una strana riluttanza, riaccese al lampada della scrivania. […] Durante quell’anno, e specialmente nei mesi invernali, si ritrovò a tornare sempre più spesso a quello stato di irrealtà. Sembrava in grado, a piacimento, di rimuovere la sua coscienza dal corpo che la conteneva e di osservarsi dall’esterno come un estraneo che ripeteva i gesti di sempre in modo stranamente familiare. Era una dissociazione che non aveva mai provato prima. Sapeva che avrebbe dovuto preoccuparsene, ma si sentiva come inebetito e non riusciva a convincersi che fosse importante.
Per tutto il tempo in cui leggevo il libro credo di aver goduto anch’io di ogni folata gelida, senza neanche farci caso. Un po’ come sembra accadere a Stoner: gli piace prendere sberle di freddo in faccia, e nemmeno lui sa spiegarsi perché, anzi non se lo è mai chiesto. Gli piace e basta.
L’incanto del libro è che Stoner non è mai consapevole fino in fondo di nulla. La consapevolezza di sé, è qualcosa che gli si para davanti all’improvviso, la intravede più volte, ma giusto per un istante, il tempo di pensare che forse era proprio ciò di cui andava in cerca senza neanche sapere di stare cercando. Perché questo gli succeda, bisogna che sia distratto, che stia pensando ad altro. Non appena si concentra sulla sensazione, ecco che subito questa perde di importanza e svanisce: uno spiffero che entra nella stanza perché ha chiuso male la finestra, oppure un’ondata di gelo che gli trapassa i vestiti quando esce sul portico dimenticandosi di indossare il cappotto. Poi il calore della stanza torna a ovattare tutto.
A Stoner il freddo regala la più perfetta e la più umana delle grazie: accorgersi, per brevi istanti mai annunciati, di ciò che si è, e patirlo senza disperarsi, ma quasi godendo. Come se fossimo qualcun altro, qualcuno che possiamo osservare da fuori. Ad esempio il protagonista di una biografia inventata. Cioè di un romanzo.